Di Antonio de Sortis
(fotografie di Mariano Silletti)
Prima di iniziare i miei giri sono stato fermo al distributore di benzina, all’entrata est di Pisticci. Da un po’ ci sono due nuovi benzinai, facce conosciute che mi fanno sentire in colpa perché non mi riesce di associarle a un nome. Si perdono in questo reticolo di fili slacciati che è la mia semi-cultura locale e che ormai è poco rodata.
Mi sforzo tantissimo di fare l’abbinamento, penso di chiamare i miei amici per informarmi, ma ho già un lieve mal di testa da caffè. Il benzinaio, direi Sandro, che ho visto sicuramente altrove in altre vesti, mi usa tutta una serie di riguardi che non mi aspetto. Saluta a modo, mi dà del voi, si assicura di aver scelto il tipo di carburante adatto alla mia auto, mi chiede se preferisco pagare con il POS. Io mi incuriosisco e accetto, lui allora si ritira lentamente nel minuscolo gabbiotto di fianco al bar, tutto inorgoglito dall’efficienza che mi ha mostrato.
Mi guardo intorno. Questa pompa di benzina è stata chiusa per un po’ e riesce ad avere un aspetto, se possibile, ancora più fatiscente di quelle che normalmente si trovano all’imbocco delle periferie. Mi pare avessero fatto dei debiti, per questo era chiusa. La colonnetta elettronica del self service è ancora paurosamente soffocata da alcune buste nere per l’immondizia, l’intento è banale – è fuori servizio – ma mi inquieta, potrebbe esserci un grosso animale asfissiato lì dentro.
Da una parte, alle spalle del bar, la parete argillosa è tenuta salda da un blocco di cemento, di fronte invece passa la strada e il guard rail a strapiombo sul primo fosso, sembra che la vista si getti giù per la collina a quanto spazio le si apre. Guardo i tre avventori seduti nello spiazzo sulle sedie di plastica, nei loro giubbotti, e una quarta sedia vuota isolata dal neon. Tutto è spoglio in maniera sfacciata, quasi volgare, senza neppure i lampioni che concedono alla sosta quel cono di domestica luce verdina.
Questo posto si presta solo a illuminazioni e temperature ostili: ventoso-fradicio-impenetrabile oppure torrido-essiccato-abbagliante. In questo caso, siamo in una fase di transizione. Digito il codice sull’aggeggio luminoso, lui si volta. Infine mi saluta dignitosamente. Accendo il quadro e metto in moto. Questa nuova generazione di benzinai cerimoniosi si prenderà la provincia, penso. Penso che sia una mossa intelligente e un atto di amore per il popolo lucano. Ci sono paesi che senza pompa di benzina, o con il distributore chiuso, insomma senza le vie della gomma, diventano isole. Non ho nessuna voglia di avviarmi, ma le giornate sono ancora corte. In Basilicata oggi fa l’ultima pioggia d’inverno e scendere sul Basento è come attraversarla a nuoto.
Ho iniziato ad accorgermi del paesaggio lucano molto tardi, e non molto prima che la corsa per Matera 2019 avesse inizio. Ero studente all’università, e come è uso fra i fuorisede rientravo in Basilicata di notte, con i pullman delle due o tre compagnie private che, si può dire, se ne occupano. Alcune di queste macchine sono una specie di galere dell’asfalto. Quando mi svegliavo all’alba, stremato da poche ore di sonno intermittente, la valle del Sinni rilasciava come un vapore, una luce densa e corroborante. Richiudevo gli occhi con la convinzione di approdare in un’oasi di pace.
Col passare degli anni questa usanza iniziò a stancarmi, decisi allora di provare il viaggio diurno. Raggiungere dunque Napoli, e poi prendere il treno.
Il regionale Napoli-Taranto – variante ottimistica del Potenza-Metaponto – rimane l’unico mezzo pubblico, assieme all’Intercity Roma-Taranto, che attraversi la Basilicata da parte a parte, costeggiando il letto del Basento e battendo una delle arterie più trafficate della regione, l’omonima SS407 Basentana. Il treno ferma in una manciata di stazioni, di cui cinque sicure, effettivamente poco distanti dal percorso del fiume: Potenza, tutto dritto attraverso i boschi e le Dolomiti Lucane fino a Grassano, poi Ferrandina, Pisticci, infine Metaponto, dove il Basento sfocia nello Ionio. Ammetto di aver vissuto con lo spirito del cartografo i miei primi viaggi su questa tratta. Il treno è minuscolo, non più di tre, massimo quattro vagoni desolati, e procede a velocità contemplativa in un pergolato di fitta vegetazione.
La Basilicata è una regione poco urbanizzata, dove è difficile orientarsi ma soprattutto difficile muoversi. Ogni comune è di norma molto esteso, percorso da centinaia di chilometri di strade interne e interpoderali, disseminato di contrade ignote o note solo a chi ne possiede qualche ettaro. La popolazione è concentrata, salvo poche eccezioni, nei piccoli centri urbani in collina. Intorno lo spazio galleggia. I più mondani possono vantarsi di una posizione di privilegio, cresciuti nelle cittadine di pianura di recente costruzione che tendono a espandersi lunga la costa, o intorno a vecchi centri rurali. Ma sono sagome di cui colpisce la solitudine, il microscopico skyline in un mare di natura leggermente antropizzata.
Il mio trenino ne tange i confini con discrezione, si fa largo senza dare disturbo. Si scende tutti insieme in qualche stazione, in tutta fretta, e da lì subito in macchina, i parenti seduti sul cofano ad aspettarci, a sparpagliarci per questo arcipelago. Dopo un passato da instancabili camminatori, viviamo la nostra viabilità presente soltanto su gomma. È consuetudine, guidando in compagnia sulle strade meno battute (per me, ad esempio, la Cavonica, o la Saurina), esprimere una sorta di stupore per la mera presenza di questi paesi. Quando li si avvista, li si classifica grazie alla segnaletica, e si dice: Guarda, San Mauro Forte. Poi uno aggiunge: Ci sei mai stato? Spesso, per la mia generazione, la risposta è no.
Raggiungere in auto lo svincolo della Basentana può diventare sfiancante. A prescindere da quale sia, con precisione, il punto di partenza, prima di arrivare a valle e quindi al fiume va pagato ogni volta un obolo al paesaggio. La norma è partire dal paese, il quale nasce borgo normanno e digrada in un guazzabuglio di edilizia moderna post-rurale (né massiccia, fuligginosa e compiutamente urbana, né così modesta, schiacciata, con l’uscio senza marciapiede), fino a certi stradoni di sole officine, depositi, magazzini ampi e coperti dalle varie mani di stucco, simili a masserie; poi finiti i quartieri si esce in campagna. Da qui si accede ad altri strati di geografie, fino a che finalmente navighi spedito fra i campi. Quindi imbocchi la superstrada.
Questa è la procedura che chi vive lungo il Basento deve applicare per raggiungere Matera. A poca distanza dallo svincolo per la stazione di Ferrandina Scalo c’è un lungo cavalcavia panoramico a strapiombo sulle secche, che di lì risale verso le Murgia. Lo stesso fa chi vuole raggiungere Matera da fuori regione. A meno che non arrivi da Bari, dalla vicina Puglia, costui deve scendere in una delle cinque stazioni. Da lì, con la polvere negli occhi, farsi un piano. Poiché, com’è noto, da Matera il treno non passa.
Già da prima della proclamazione di Capitale Europea della Cultura 2019, questo percorso automatico ha iniziato a ripopolarsi. Se non materialmente, di sicuro percettivamente. Da perfetti analfabeti del paesaggio siamo diventati dei prolissi narratori.
Mentre guido a marce basse verso la stazione di Metaponto, incontro a un temporale che mi ha anticipato, mi rivolgo con un certo accanimento al nulla – o meglio, al poco, al quasi – che mi circonda. Sullo schermo dei finestrini scorre un loop di casette sfondate, una casa colonica, i tipici ruderi disposti in un uniforme orizzonte rurale. La luce è più clemente del previsto, forse non pioverà, ma sento che una cappa elettrica sta calando sull’abitacolo. Il grande tabù infrastrutturale in Basilicata – la dismissione diffusa, non violenta, di cui la stazione mai compiuta di Matera è l’esempio più conturbante – svolge una funzione ristoratrice per l’osservatore, ne ha paradossalmente rinvigorito l’entusiasmo che attivava solo altrove.
Poche altre aree sono così dissestate, così incassate nella pancia dello Stivale, e così difficili da disincastrare. Le strade provinciali stanno letteralmente uscendo dalle mappe, perché si sgretolano, nonostante le Uno e le Audi si avvicendino, rade ma con ostinazione, come quando un coccio cade per terra e non viene raccolto. Frane e smottamenti rosicchiano il perimetro delle comunità fino a isolarle; un giorno fosco, carico di fibrillazione come questo, può nascondere chissà quali presagi e trasformarli in calamità.
Ma Matera 2019 ha avuto la grande intuizione di raccontarsi al suo popolo, e al mondo, in chiave futuribile e compiutamente telematica. Una Smart City a ciel sereno o quasi, una Gerusalemme celeste ascesa al cloud degli Open Data; l’irreprensibilità vergognosa della pietra stilla l’acqua limpida dell’informazione. Da quando la parola innovazione è entrata raggiante nel nostro vocabolario si è creato un enorme rumore, come di un router, e in tutta la regione sentiamo l’eco delle connessioni, lo scampanellio degli allacci telematici. Un cantiere non infrastrutturale ma mediatico; un trucco grazie al quale vediamo di più – non necessariamente meglio. E così, mentre per sbrigare una commissione, pagare una multa, visitare un parente, ci addentriamo nell’opaco entroterra lucano, sotto gli occhi sbigottiti dell’anziano interlocutore cui lo storyteller si rivolge, riscopriamo il sapere esotico della geografia locale, ci poniamo a valutare tutti gli aspetti del sussidiario: settore primario, secondario, terziario, consumi, flora e fauna, infrastrutture, fiumi laghi e mari, montagne.
Avrei potuto allungare per il vecchio pantano sulla Destra Basento, ma l’allerta meteo mi ha dissuaso. Quando il fango lo permette, se non è stato accumulato all’uscita della pineta per sbarrarne la strada, questo è un ottimo itinerario di frontiera, è bello guidarci di notte ascoltando Gene Clark, Townes Van Zandt, i Kyuss, pensare a fatti di perdizione sulla via della morte per El Paso, sotto la silhouette delle dune, di arbusti ed eternit. Da lì si ricorre alle mappe digitali e si accede facilmente al fiume con le luci alte puntate.
Scopriamo casa nostra. D’un tratto, ci piacciono di nuovo gli spazi di frontiera, il non finito e lo sfinito, la pineta e non la spiaggia, la foce e non il fiume, la banchina e non la strada, il traliccio e non la linea: perché ci sembrano laboratori, spazi in stato di trasformazione, di aggiornamento.
Arrivo alla prima stazione della Basentana per riavvolgerne il nastro, ma tutto invece è muto e immobile. Siamo a cinquanta chilometri dalla Capitale e le luci dei riflettori qui sono ancora tutte spente.
A Metaponto dovrebbe esserci traffico, è il comune sul confine con la Puglia, una meta rilevante per il turismo balneare e quello archeologico (lungo la statale Ionica, in una parte di mondo ignota se non al consorzio di bonifica, è visitabile il sito delle Tavole Palatine, un mito che si affaccia sul mare ad oriente replicato poi in chiave moderna da certi condomìni con le imposte azzurrine in anticorodal). La stazione è stata ristrutturata di recente in maniera sproporzionata. Poche anime arrancano in un gioco prospettico di passerelle, pensiline, piloni di cemento tirati a lucido che si moltiplicano, inutilizzati, a perdita d’occhio. Si sonnecchia. Dal viale principale si può svicolare in più punti. Passeggiando, provo a immaginarmi una soglia dove interrompere e tornare indietro, un’ombra, altrimenti potrei proseguire chissà fino a dove: gli edifici non sono perfettamente adiacenti, sorgono come torrette nell’aia, fra uno e l’altro c’è sempre qualche metro di sbocco su una parete vuota, su un riquadro di cielo, in cui non fare nulla. Guidando dritto fra le palme, a un certo punto un sobbalzo mi dice che la pietra bianca è tagliata netta e ricomincia il catrame.
Pisticci Scalo è un ex-luogo a tutti gli effetti. I due palazzotti dei ferrovieri sono sbarrati a piano terra, e quelli superiori sarebbero facili da occupare se non fosse per l’ostilità degli stormi che ne hanno preso possesso. Entrando nelle stazioni, spesso associo la fuga di binari ai porti, ai paesaggi di mare. Questa invece mi sembra una palude. La prospettiva barocca di certe distese di uffici ferroviari, il mistero delle attività che ospitano, non mi confondono come questo luogo senza nome, i cui resti affastellati risalgono a chissà cosa. Un binario morto poggia sulla creta spaccata, da cui più in fondo crescono filari di giunchi. Sullo sfondo, le evoluzioni architettoniche dell’ex industria petrolchimica, la più fiorente della zona fino agli anni ’80, e il quartiere residenziale che ne ospitava dirigenti e dipendenti. Il complesso è quasi completamente inattivo. Ci è voluta una generazione di cassintegrati per farci scendere a documentare amenamente la Valbasento.
Il crocevia degli eventi è a Ferrandina Scalo, la stazione delle Ferrovie dello Stato più vicina a Matera. Gli edifici dismessi delle vecchie Calabro Lucane sono stati riconvertiti in un motel, ribattezzato giustamente Old West. In futuro potrà competere con gli agriturismi – dall’altra parte della strada c’è un pollaio – in fondo è un modello alberghiero che ha imparato a ironizzare sul proprio stesso squallore e a brillare della propria stessa luce cisposa. Da un po’ di tempo la struttura non ospita più i camionisti di passaggio ma un’intera comunità migrante. Furtivamente riesco a chiacchierare con alcuni ragazzi, arrivano dal Senegal, dal Gambia, dal Mali; mi parlano animosamente, con entusiasmo, ma sanno che sono un curioso. Danno nell’occhio, perché sono in tanti.
Ciononostante anche la loro presenza sbiadisce nell’aria – troppa aria, troppo spazio per l’occhio che si perde – proprio come quella dei tanti che vivono lungo la costa e che lavorano nei campi. Capisco che qui stanno bene, ma che sono come una riserva nella riserva. La gente su nei paesi non sa niente di loro, del loro approdo, delle loro storie, e preferisce ignorare la novità.
Inoltrandosi sui binari, si vede il ponte che presumo dovesse allacciare i binari da Ferrandina a Matera, dove continuano invece a passare i trabiccoli delle Ferrovie Appulo Lucane che arrivano da Bari. La maggior parte dei visitatori, in barba al turismo esperienziale, sceglie il pullman – e lo stesso vale per me, nonostante i tentennamenti, nonostante i tempi biblici. Dall’altra parte delle colline mai disboscate c’è un ponte uguale, in riva alla diga di San Giuliano. Lì su, a testimonianza di una stagione edilizia pensata all’epoca come un’era geologica, poco prima della Martella di Olivetti, sorge offline la stazione incompiuta di Matera.
I lavori sono iniziati nell’86 e sono fermi dall’88. Contro ogni ragionevolezza, nel tentativo di emanciparsi da un destino di imprese che vincono gli appalti, falliscono, sollevano scandali politici, tuttora si riflette sulla possibilità di completare l’opera. Così è da dieci anni, e la cifra necessaria a ultimare i lavori e a ristrutturare l’esistente rovinato dall’incuria (e forse progettato male, su una tratta geologicamente a rischio) continua a lievitare. Si parla di fondi per le aree sottosviluppate, sebbene Matera sia capoluogo di provincia dal 1927. La vasta distesa di cemento sembra una pista d’atterraggio con al centro un calco di gesso che ne celebra, così liscio e solingo, l’infinita prolungabilità. La metafora della rete è arrivata troppo tardi.
Mentre, lì giù, me la immagino, mi penso come il Mosè vegliardo non lontano da Canaan ma condannato a non raggiungere la sua destinazione.
Proseguendo ci sarebbe Grassano, la stazione dove approdò Carlo Levi quasi cent’anni fa, scarrozzato lungo il Sauro da un loquace automobilista locale. L’ultimo smistamento prima delle montagne, le stesse dove un tempo era facile nascondersi, i cui passaggi erano le rotte dei briganti. Rientrando a casa, allontanandosi dalla frontiera verso le aree interne, ci si dimentica in fretta del treno, delle tante prediche a riguardo. Da qui tutti i facili entusiasmi si placano. I benzinai sono meno gentili e il futuro, anche quello già agghindato, non si vede più bene; è un polverone che si alza in fondo alla valle, e arriva molto lentamente.
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* Slow Train Coming è il primo, famigerato album di Bob Dylan successivo alla sua conversione al cristianesimo. Comunemente ritenuto fra i punti più bassi della carriera del cantautore americano, ne inaugura una fase di profonda trasformazione artistica che si conclude con la definitiva rinascita degli anni ’90.