di Bertram Niessen.
Viviamo in tempi strani, in un’alternarsi di accelerazioni improvvise e situazioni di stallo che ci costringono a cambiare prospettiva ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
Il nostro paesaggio cognitivo è sovraffollato fino all’inverosimile. Frammenti di letture della realtà sgomitano continuamente, baluginando per pochi istanti attraverso la soglia di attenzione: flash di significati subito sostituiti, ribaltati, contraddetti. Eppure i nostri corpi non cambiano con la stessa rapidità ed i territori popolati da quei corpi cambiano ancora più lentamente.
E’ nella distanza tra queste velocità che ci sforziamo di costruire un senso, una possibile lettura di quello che ci circonda che allo stesso tempo nutra noi e la rete di rapporti con gli altri esseri umani, il vivente, gli oggetti, il paesaggio.
Ma è una distanza della quale, nella quale, fatichiamo sempre di più a costruire esperienze. Ci hanno costretti e ci siamo costretti ad abitare la velocità dimenticando cosa vuol dire abitare la lentezza: un ritmo, una scansione o una mancanza di scansione che appartiene sempre più solo al territorio dell’onirico, di quelle lande sospese che ci aspettano al di là della veglia. Ed è portando la lentezza fuori dal sonno, forse, che possiamo trovare percorsi esperienziali che ci aiutino a costruire senso, interpretare.
Questa riappropriazione è uno strumento al quale non possiamo permetterci di rinunciare nell’inevitabile processo di razionalizzazione che investe i mondi dell’arte e della cultura.
Importantissima è la progettazione. Ineludibile il dibattito sui modelli di governance. Essenziale l’organizzazione del fundraising. Doveroso il ragionamento sugli impatti. Inevitabile la questione dei lavoratori culturali. Tutti tavoli di pratica e di discussione sui quali la cultura contemporanea può, deve, giocare in simultanea, abitando la velocità dei sistemi sempre più complessi che la attraversano. Ad un livello più profondo, però, la cosa più importante è non lasciare indietro il tempo del sogno, abbandonando l’esperienza estetica ed estatica dell’abitare con lentezza i mondi dei simboli.
E’ per questo che i progetti culturali di rigenerazione territoriale lontani dai grandi centri urbani hanno molto da insegnarci.
Non tanto per la loro capacità di dialogare con reti diverse e portatori d’interesse spesso radicalmente altri, ma soprattutto per la tensione esperienziale che costruiscono nel dialogare tra il paesaggio “là fuori” e i nostri paesaggi interiori. Un movimento lento, talvolta lentissimo, popolato di pause, di silenzi. Del nonagire (wuwei) del taoismo cinese. Non si tratta di un termine a caso. In “Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente”, François Jullien propone come antitetiche le concezioni della progettazione in queste due grandi tradizioni filosofiche: la prima è processuale, volta alla lettura cauta delle forze invisibili della natura e ad un loro lento accompagnamento nelle direzioni più auspicate; la seconda è progressiva, improntata all’esercizio di uno sforzo della volontà umana che la proietta oltre la staticità del presente. Due dimensioni progettuali ed esperienziali diametralmente opposte, anche e soprattutto dal punto di vista del tempo.
Il rapporto tra la progettazione culturale, la sua produzione e la sua esperienza è sempre più stretto. E’ il momento per interrogarsi su queste interconnessioni al ritmo di tempi diversi, di pratiche che abitino la lentezza insegnandoci nuovi modi per costruire il senso. Prolungando i sogni nella veglia, un po’ così, con calma.
In copertina: Olivier Estoppey, “Dies irae (Jour de colere)”, 2001/2002. Giardino Daniel Spoerri
Pubblicato su CheFare il 21 Settembre 2016.