La fine del buio
24 novembre 2016 10:55a cura di Valerio Millefoglie
1882, New York, per la prima volta nel mondo le strade sono illuminate con lampade elettriche.
1884, si accendono anche in Italia.
2016, Surrein, Svizzera orientale, la luce arriverà entro la fine di agosto.
Siamo andati a trascorrere una delle ultime notti di oscurità.
In un servizio della televisione svizzera intitolato, “A Surrein la luce vince sulle tenebre”, si racconta di un villaggio nel cantone dei Grigioni, nella Svizzera orientale, da sempre sprovvisto d’illuminazione pubblica e che al tramonto cala nella totale oscurità. La notizia è che a fine agosto saranno installati quarantasette lampioni. Nel servizio televisivo Otto Deplazes, il rappresentante della comunità che conta circa duecentocinquanta abitanti, si dichiara soddisfatto perché le strade saranno finalmente sicure. Simon Jacomet, uno degli abitanti, commenta che si vedranno meglio le strade ma non si vedranno più bene il cielo, le stelle e si perderà qualcosa di speciale. Entrambi durante l’intervista accendono una candela e la proteggono fra le mani, come se quella piccola fiammella al momento fosse l’unica cosa ad accumunare i favorevoli e i contrari, uniti nel gesto di prendersi cura di quel luogo, una lingua di terra impolverata dai lavori in corso. Una pianura immersa nella vallata, e sovrastata dalla vallata. Una lunga strada dritta, dove ai lati si sviluppano case di legno a tre piani, porticati con uomini che scrutano i campi all’orizzonte, fattorie, capannoni, trattori in movimento, una distilleria, profondo Texas elvetico. Benvenuti a Surrein. Ho deciso di trascorrere qui una delle ultime notti senza luce, per raccontare la fine del buio.
a bandiera svizzera sventola sopra i lumini rossi del cimitero, nel cortile della basilica del 1695, al centro della piazza del villaggio. I piccoli anelli di ferro che la tengono ancorata al palo, sbattono contro il palo stesso. Un rumore metallico si propaga nell’aria e diventa il preludio al suono di campanacci che si sente provenire da più in là, dal collo degli animali insonni, sparsi nel verde invisibile. Le campane della chiesa di Sumvitg, il comune cui fa capo Surrein, suonano ogni mezz’ora. Il fiume Reno infuria sottoterra. L’acqua scorre placida da una fontana. L’udito trasmette al cervello questi stimoli sonori che l’immaginazione e la suggestione rielaborano in una versione spaventosa, ogni fruscio diventa un passo, una voce, un rumore sospetto, un agguato fantasma. Per non sentirmi solo accendo il registratore e comincio a parlare, “È l’1:57 di notte. Percorrerò tutto il villaggio a piedi, cercando di non aiutarmi accendendo la torcia”. C’è una minuscola oasi luminescente data dai lumini sopra le lapidi e da un fascio accecante, alieno, che proviene dalla vetrina vuota del supermercato. Si riverbera sul marciapiede creando un angolo di Edward Hopper, dove anche i nottambuli sono andati via. Faccio il primo passo fuori da questo cerchio salvifico e proseguo verso l’ignoto.
“È l’1:57 di notte. Percorrerò tutto il villaggio a piedi”
Un po’ di ore prima, un gruppo di giovani studentesse scende le scale della scuola, accanto al municipio di Sumvitg. I capelli biondi si sollevano in una moviola cinematografica mentre sorridendo, mi augurano, “Buonasera”. È mezzogiorno. Vanno avanti lasciandomi a rivivere più volte lo stesso secondo in cui ci siamo incrociati. Ho un piccolo cortocircuito nel cervello e ripenso a quando qualche giorno fa, per il quotidiano con cui collaboro, ho seguito la prima fase di uno studio sui pazienti in coma. Al soggetto, un pedone investito da un’auto e in coma da quasi una settimana, erano lette due frasi mentre era steso dentro la macchina della risonanza magnetica: “Un aereo vola nel cielo” e “Un aereo vola nel mare”. Monitorando la risposta della tac cerebrale, e mettendola a confronto con quella di persone sane, lo studio si prefigge di evidenziare se il soggetto avverte la non plausibilità della seconda frase, rivelando così uno stato di coscienza. Un uomo vede la strada, un uomo vede il buio.
Simon Jacomet a volte tasta le case come un cieco farebbe con il volto di una persona, per riconoscere dai lineamenti degli edifici il punto esatto in cui si trova. Il proprietario dell’officina da motors si avvolge una fascia fluorescente attorno al braccio per farsi vedere subito dalle auto. Da un rapporto della Polizia Cantonale datato 27 gennaio 2004 si legge, “L’uomo Nero che dall’inizio dell’anno si aggira nella regione è solo una diceria. Non c’è la minima prova dell’esistenza di un uomo nero che avrebbe rapito i bambini e spaventato donne, anziani e uomini. Le indagini non hanno portato ad alcun risultato concreto. I timori e le ansie sono assolutamente infondate”. In un articolo uscito il 14 novembre 2014 sul quotidiano Südostschweiz torna la paura dell’uomo nero, “La polizia chiede a chi sa qualcosa di questa donna o di quest’uomo che si veste di nero e che si aggira nelle vicinanze, d’informarla”. Nella borsa ieri mattina ho messo solo vestiti neri. Indosso un pantalone nero, una maglia nera, scarpe nere, ho i capelli neri, la barba nera, le stanghette degli occhiali neri. Un gatto nero s’infila tra le gambe. Nei secondi che c’impiego per capire che è solo un gatto, sento salire un’onda di panico che parte dalle gambe e sale fino a rimbombarmi forte nella testa e a paralizzarmi. Otto Deplazes mi ha raccontato che quando era piccolo, suo nonno una volta gli disse, “Noi vecchi facciamo la nostra vita, poi qui è finita. Arriverà l’orso”. L’orso è arrivato davvero. Nell’ultimo mese ci sono state segnalazioni di avvistamenti notturni nelle altre frazioni di Sumvitg. Avverto un formicolio dietro il collo, mi gratto e mi ritrovo in mano un insetto nero con le ali. Mi chiedo come avrei reagito se fosse stato l’orso. Ricordo il finale del documentario “Grizzly Man” di Werner Herzog, la scena in cui il regista ascolta in cuffia la registrazione delle urla di un uomo sbranato da un orso. Accendo la torcia. Una rana salta su un muretto. Nella terra è conficcato un paletto di frassino, sopra c’è scritto “Lampe”. Qui sorgerà la luce.
Nella terra è conficcato un paletto di frassino, sopra c’è scritto “Lampe”. Qui sorgerà la luce
Severine, il figlio di Otto, ha ventitré anni ed è contro l’installazione dei lampioni. Come la maggior parte dei giovani del villaggio, pensa non ce ne sia bisogno perché di sera non cammina nessuno ed è convinto che sia una spesa inutile. Il padre, mentre eravamo seduti al ristorante Placi Pign ad aspettare il tramonto, mi ha confessato che per il figlio ormai è troppo tardi, avrebbero dovuto mettere la luce quarant’anni fa, adesso Surrein è destinata a scomparire. Otto, stretto tra la generazione precedente del nonno e quella successiva del figlio, sembra essere tra loro l’unico credente.
Armin Candinas, sindaco di Sumvitg
Il primo referendum per scegliere se installare i lampioni è stato fatto nel 1980. Il costo delle luci sarebbe dovuto essere totalmente a carico degli abitanti di Surrein. L’80% votò per il no, il 20% per il sì. Dieci anni dopo, nel 1990 il 50% votò per il no, il 40% per il sì. Nel 2000 la differenza fu di una sola persona per il no. Oggi il costo dell’installazione sarà suddiviso tra gli abitanti di Surrein e il comune di Sumvitg. Così il 15 marzo 2016 su 90 votanti, solo 3 hanno detto no. Molte persone in disaccordo non si sono presentate. L’unico a prendere parola per loro è stato Simon Jacomet, cinquantadue anni, imprenditore di un’azienda che produce sci, la Zai, che significa resistente, “Voglio dirvi qualcosa perché altrimenti poi mi pentirò, e ve la dico perché come tutti voi sono innamorato di questo posto. Voglio dirvi com’è la vita nella luce. Mia moglie abitava a San Francisco e per riuscire a vedere il cielo doveva andare fuori città. Sua madre ora vive in un paese vicino a San Diego, anche lì non c’è la luce e gli abitanti hanno deciso di non metterla perché preferiscono vedere bene il mare di notte. Certe volte la gente sente la mancanza di una cosa solo quando non c’è più. La luce taglia lo spazio, divide, seziona. Anche di giorno, i pali tra una casa e l’altra creeranno un’altra geografia, un impedimento. Forse saremo più coscienti, avremo meno problemi, ma avere meno problemi è noioso. Non proveremo le stesse emozioni. Lo scuro ci mancherà”.
“Lo scuro ci mancherà”
Ormai gli occhi si sono abituati. Vedo tutto. Nel registratore ripeto, “Il cielo è bellissimo. È bellissimo. È bellissimo”. È di un blu chiaro, primitivo, sono appena uscito dalla caverna e sto vedendo le stelle. La luna non è ancora sorta. Sul taccuino provo a scrivere una frase senza riuscire a leggerla, “Prendo appunti/ al buio/ devo fidarmi”. Un involontario haiku, Devo fidarmi al buio, prendo appunti. Qualche pagina prima, nel pomeriggio, mi sono appuntato la frase, “Perle di aria, acqua come il latte”. Qualcuno mi ha raccontato che qui d’inverno l’acqua nel bicchiere è bianca a causa delle bolle che ci sono nell’aria. Bisogna aspettare e dopo poco si scioglie. Parlo di nuovo al registratore, “Devo scriverti un messaggio per dirti che dobbiamo essere più forti”. Me ne vergogno subito. Sembra un pensiero consolatorio, lessico da master motivazionali per gente in carriera, lirica di una canzone che sfrutta il “Noi”, il sentirsi parte di qualcosa. Qui invece tutto il mondo dorme, c’è un solo fuso orario ed io sono l’unico uomo in piedi.
Ancora per qualche passo.
A sinistra Otto Deplazes, rappresentante della comunità di Surrein
Un altro memo vocale, “Sono le 2:30, sto passando fuori da casa di Theo, è ancora sveglio”. All’ultimo piano di una casa, dietro una tenda illuminata, c’è uno scrittore di ottantaquattro anni, Theo Candinas. Di pomeriggio ho trascorso qualche ora anche con lui. Rivedo il portico sotto il quale ci siamo seduti. La moglie ci ha servito una birra. Poi ci ha aperto la porta d’ingresso, con sopra una colomba della pace. Theo ha scritto romanzi, testi teatrali, saggi, favole e articoli che trovano posto nella sua libreria tra Friedrich Dürrenmatt, “Komodien II: Und Fruhe Stucke”, Elias Canetti, “Masse und Macht”, Günter Grass, “Die Blechtrommel”, Peter Handke, “Die Hornissen”. Sulla scrivania del suo studio c’era un pezzo di legno, con infilzate dentro penne e matite. Ne ha presa una e mi ha raccontato come ha iniziato a scrivere, “Alla scuola elementare il maestro un giorno ci disse, – Scrivete qualcosa sulla primavera. A quel tempo non c’erano i quaderni e ogni alunno aveva una lavagnetta. Per quel tema ne usai due, scrivendo quattro pagine. Quando il maestro lo lesse mi disse, – Non puoi averlo scritto da solo. Gli risposi di sì, che per scriverlo non ero andato in bagno e non avevo fatto pausa come gli altri. Lui ripeté che a dieci anni non potevo averlo scritto da solo, immerse la spugnetta nell’acqua e lo cancellò. Quel giorno capii che scrivere è pericoloso”.
“La Burnida” è il titolo di un suo romanzo. In italiano si traduce “La brace”. Quando gli ho chiesto di cosa parlasse mi ha risposto, “Parla di tutto”. Per guadagnare ha lavorato una vita come insegnante di scuola e per scrivere il primo libro, ai tempi, chiese due mesi di congedo, “Un collega commentò, Farai in tempo a scrivere il titolo”. Per un mese e mezzo non riuscì a scrivere neanche quello. Poi guardò il pendolo attaccato al muro e cominciò, “L’orologio fa tictac. Da quanto tempo fa tictac? Forse da sempre. Gion Barlac è chiuso in casa. Da quanto tempo è chiuso in casa? Forse da sempre”. Era il 1975.
Walter Deplazes, ingegnere e responsabile dell’archivio comunale di Sumvitg
Uno dei capitoli de “Le storie di Gion Barlac”, ha per protagonista un uomo che si accorge di essere circondato da cose di troppo. Abita in una casa che non si è costruito da sé, si nutre di verdure che non ha coltivato da sé. Così spegne la luce, come se anche questa fosse un oggetto, qualcosa con una sua materia che ingombra, e dà fuoco alla casa. In strada lancia pietre contro i lampioni. Abbandona la macchina sul ciglio di un viale. Si spoglia di tutti i vestiti e si accascia nudo per terra, dove muore. “La domanda da cui sono partito”, mi ha spiegato, “è questa: fino a dove devi spingerti per arrivare a te stesso, alla tua essenza, per arrivare a ciò da cui provieni?”.
“La domanda da cui sono partito è questa: fino a dove devi spingerti per arrivare a te stesso?”
Tutti i suoi libri sono scritti in romancio, una lingua di origine ladina e friulana. Già nel XIX secolo girava un motto, “Alzati e difendi la tua vecchia lingua”. Oggi è difesa solo in pochi territori remoti del cantone dei Grigioni. A Sumvitg è la lingua ufficiale. Forse questo è il motivo per cui ci sono così tanti scrittori, “Ogni villaggio ne ha uno o due”, mi ha detto Otto. Anche suo zio, Gion Deplazes, era un autore e ha scritto il testo dell’inno di Surrein. Inno che in un programma televisivo anni ‘90 della RTR, la radio televisione Romancia, “Bsuech in der Surselva 3: Surrein”, viene eseguito dal coro di Surrein. Tra gli elementi del coro c’è la moglie di Otto, intona, “Las casas se fan en paradalas…”, le case fanno una parata, e quando il sole passa, la vita passa. Nei mesi d’inverno il sole è oscurato dalla valle. Sul versante opposto a Sumvitg, come vedette, ci sono alcune case. Fuori da una di queste è esposto un cartello con sopra scritto, “Qui si vendono formaggi e letteratura”. È la casa di Leo Thour, uno scrittore quarantenne che proprio in questi giorni ha subito un’operazione agli occhi. Mi sembra una coincidenza. Coincide con il libro che mi sono portato in viaggio, “Punto d’ombra”, edito da contrasto, di Teju Cole, uno scrittore e fotografo nigeriano che nel 2011, a causa di alcune perforazioni alla retina, ha vissuto un periodo di semicecità. Nella foto a pagina 152, un paesaggio alpino è incorniciato in un quadro sopra il letto. La carta da parati floreale fa da sfondo e sembra proseguire sul cuscino, dove sulla fodera sboccia un fiore. Nella didascalia Teju Cole racconta di un altro fotografo che sta perdendo la vista, “Ecco perché sta lavorando così tanto, cerca di vedere ogni cosa, di accumulare tutto prima che sia troppo tardi”. Per Degas, anche lui colpito da retinopatia, si stava facendo troppo tardi. Lo racconta sempre Teju Cole, citando una lettera che il pittore spedì a James Tissot, “L’oculista mi ha permesso di lavorare solo un poco finché non spedisco i quadri. Lavoro con grande difficoltà e molta tristezza”.
Le case fanno una parata, e quando il sole passa, la vita passa
Avanzo nella cecità aggirando i lavori in corso, evitando di sbattere contro una transenna, distogliendo lo sguardo dalle finestre di una casa per paura di veder apparire qualcuno. Dico in tono trionfante nel registratore, “Sono le 2:46 e sono quasi arrivato all’estremo opposto di Surrein”. Nella solitudine che amplifica tutto, sento di aver compiuto un’impresa epica.
Simon Jacomet, imprenditore, sfavorevole all’installazione dei lampioni
Le case si diradano, uscito dal paese potrò andare dove voglio. La letteratura non sembra più essere il fine ma una scusa per spingermi in situazioni sempre più lontane dal mio mondo.
Un archivio dei morti, si potrebbe definirlo così, quello che c’è nella vecchia scuola di Surrein. Una grande stanza dove stanno raccogliendo le memorie di tutti gli abitanti da ogni parte di Sumvitg. Su un lungo tavolo, ordinata in cartelle, ho visto tutta la vita di Maria Beer, una poetessa della zona: lettere, album fotografici, giornali, oggetti. Incuriosito, ho fatto delle ricerche e ho trovato un quadro di Gustav Klimt, un olio su tela datato 1916 e intitolato, “Ritratto di Friederike Maria Beer”, una giovane donna della società viennese. Scavando ancora nell’archivio dei morti, in una scatola c’era un pacchettino verde con sopra scritto, Kino Photo. Dentro erano conservate diapositive di antenati in papillon, impressionati da un cerchio di luce. Da una cartella è sbucata la foto di una festa in maschera, dove non ho visto né la festa né la maschera: gli abitanti del villaggio schierati come un esercito, vestiti da soldati del passato, così la foto diventa qualcosa di trapassato. Impugnano spade, scudi, indossano elmi e i volti sembravano ricoperti di cerone bianco che li rendeva vitrei, seriosi, con la speranza di una guerra. Su una mensola un fucile dell’Ottocento. Su un’altra mensola “La vita dei santi”, un libro stampato nel 1839 dalla tipografia della basilica di Surrein. Accanto, il verbale dei bilanci agricoli di un contadino, sul foglio bianco a tutta pagina il titolo, “Tut el maun de Diu”. E infine un registro narrativo della popolazione del villaggio. Ogni 6 dicembre, per la festa di San Nicola, si sorteggia una persona di Surrein che deve scrivere dei brevi racconti di ciascun abitante. Poi, la notte, gira di casa in casa a leggerli, fino all’arrivo del giorno. Walter Deplazes, il responsabile dell’archivio, mi ha letto sul registro il ritratto che gli fu fatto quando aveva quindici anni, “Walter è già maturo. Studia al ginnasio, si comporta bene e ha una predilezione per le cose militari. Un giorno sarà sicuramente un ufficiale”. Oggi fa l’ingegnere. Come passa il tempo, facendoti diventare altro.
“Sono le 2:46 e sono quasi arrivato all’estremo opposto di Surrein”
“L’ura fa tictac, Gion Barlac ei el claus. Las steilas ballontschan, tremblan e stezza. Lu ha Gion Barlac entschiet a scriver istoria per mitschar dil claus”, Theo Candinas, in piedi nel suo studio, sotto il lampadario che quasi tocca con la testa, prima che ci salutassimo mi ha letto alcune frasi del suo libro. Poi l’ha chiuso e ha detto, “Gion Barlac sono io”. Ripasso fuori dalla sua casa. Ora la luce è spenta. Continuo a camminare. Come in un flusso mi tornano in mente alcune frasi raccolte di giorno. Anche se stanno dormendo, risento le loro voci. “Ai funerali alcuni scavano la fossa, altri depongono l’urna con le ceneri”. “Ho avuto tre attacchi al cervello ma venivano tutti dal cuore”. “È un pochino depressivo”. “È una cosa speciale”. “Non voglio parlarne”, “La luce potrebbe infastidire gli animali”, “Anche i bambini sono contro la luce, non hanno alcun timore del buio”, fantastico su una fiaba dal titolo Nero Torcia, la storia di un bambino che ha paura della luce. “Lavora per il pane ogni giorno e prega perché potresti morire presto”, è la frase che mi ha tradotto un uomo, scritta sulla facciata del ristorante Placi Pign. “Io ho sempre avuto difficoltà a farmi inquadrare in un settore preciso”, mi ha confidato Theo. Gli ho chiesto se con il termine farsi inquadrare intendesse in senso editoriale, a scaffale, tra i vari generi in libreria perché magari ha una scrittura sperimentale. “No”, ha specificato, “Ho sempre avuto difficoltà a inquadrarmi nella vita stessa”. Poi rivedo Otto Deplazes, in piedi, mani ai fianchi, fermo proprio dove ora sono io, quando guardando il campanile della chiesa di Sumvitg in lontananza mi ha detto, “Per me quello è il mio Cremlino, io mi metto qua e dico, Per me è la capitale, per me quella è Mosca”. “La luna sale lentamente da dietro le montagne e se trovi la sua stessa andatura a un certo punto riesci a camminarci insieme”. Ed è quello che accade.
“La luna sale lentamente da dietro le montagne e se trovi la sua stessa andatura a un certo punto riesci a camminarci insieme”
La luce è già arrivata, intensa, fortissima. È giunta dall’alto, da più in alto di Sumvitg, una luna piena, nitida, umana, potrei afferrarla. La seguo. Oltrepasso anche l’antica chiesetta. Dopo di questa, rimane la strada, ai lati solo campi, arrivederci, saluti da Surrein, solo buio, la fine.
La favola di Nero Torcia
Questo non si tocca, gli aveva detto più volte la mamma indicando un pulsante sul muro chiamato interruttore.
Questo non si tocca, gli aveva detto più volte il papà indicando quello strano oggetto a forma di campana sopra il comodino.
Mi raccomando, gli intimavano in coro tutti e due, non accendere la luce che è pericoloso.
Perché?, chiedeva lui.
Perché la luce è un mostro che toglie la sorpresa.
Che paura, strillava lui, che paura la luce.
Dove si posa, continuavano i genitori, tutto è chiaro, tutto finisce. Ti ruba la curiosità, smetti di cercare.
Che paura allora, strillava lui, che paura la luce.
Per questo vivevano al buio anche di giorno.
Fino al giorno in cui lui disobbedì ai genitori e alla sua stessa paura. Prima schiacciò il pulsante dell’interruttore e vide che le pareti della casa erano di cartone, sopra c’erano disegnati il salone con il divano, la cucina con i fornelli, ogni cosa che non esisteva era illustrata.
Poi accese l’abat-jour sul comodino e vide che questo era l’unico mobile della camera da letto. La camera non c’era, il letto era una linea di gesso sul pavimento, il pavimento era un tappeto sopra la terra.
Quando tornarono i genitori, questi corsero subito a cercare un riparo dove nascondersi dalla vergogna. Si vedeva tutto, si vedeva bene anche la loro vergogna.
Lui prese una torcia, montò la lampadina al contrario e inventò la torcia che fa buio su tutto.
La passò sull’interruttore, sull’abat-jour, scacciò il mostro di luce. Così, riportò l’immaginazione e la meraviglia, la speranza di un mondo possibile. L’inizio del buio.
Pubblicato su CTRL Magazine il 10 Agosto 2016
fotografie di Thomas Pololi
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