I nuovi moti verso le terre

2 gennaio 2017 11:33 di jazzi

Di Emmanuele Curti.

SPECIALE AREE INTERNE. oikonomia, la regola di un nuovo abitare e la necessità di un rinnovato vocabolario. ‘ Ma per concepire questa nuova comunità, servono nuove economie e nuove regole: serve reinventarsi l’agricoltura, l’allevamento, l’artigianato, nuovi saperi’. La proposta di Emmanuele Curti, ‘archeologo della contemporaneità’

 

Poche righe, poche parole: parole che mi auguro comunque che si vadano ad intrecciare con le altre, e che insieme vadano, innanzitutto, a declinare un vocabolario nuovo, (di qui la provocazione del titolo), un codice che attivi sensi, per sovvertire ordini oramai divenuti silenti, quello delle aree interne e/o delle zone terremotate (spesso coincidenti lungo la nostra spina dorsale italiana).

Da archeologo (oggi direi più da ‘stratigrafo’, da persona attenta ai dialoghi che i nostri strati interiori continuano a produrre in un continuo naturale confronto), parto da un elemento a mio parere essenziale: abituato una volta a scavare/studiare siti italici scomparsi con la romanizzazione dell’Italia (il potere di Roma che ‘convince’ tutti a spostarsi dalle pendici e picchi appenninici verso valle – il totale controllo economico e militare non aveva più bisogno che le popolazioni si arroccassero in posizioni difensive), e a vedere riemergere nuovo insediamenti nelle stesse aree con la disintegrazione dell’impero (che poi hanno perdurato dal tardo medioevo fino ad oggi), mi chiedo spesso se non stiamo assistendo ad un nuovo simile fenomeno. L’ impero oggi è di ben altra natura, ti spinge alle città, ma l’idea di fondo è uguale: un sistema che ha fatto saltare l’economia dei nostri paesi, perché non più ‘utili’. Con la crisi dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’artigianato (una produzione, nei borghi, in gran parte di autosussistenza) questi luoghi dell’abitare non potrebbero avere più senso: prendiamone atto.

Se così fosse, mi piacerebbe avere la coerenza di una politica che lo dichiari, e che si prefigga il compito, nel futuro, di accompagnare serenamente nell’eutanasia questi borghi. Ma lo dica, rifuggendo politiche di sopravvivenza, senza rifugiarsi in politiche di aree interne già sconfitte.

Ma se così non è (non accettare la morte presuppone un piano di vita), è nostro dovere, semplicemente, generare nuove dinamiche economiche e, come spesso dico, ridare senso alla parola oikonomia, come regola di un nuovo abitare.

Ultimamente il fenomeno della paesologia sta riconquistando i cuori, specialmente quelli degli abitanti delle città (mentre nei paesi la gente dice di aver passato ormai il punto di non ritorno) che si innamorano dei nostri borghi, dei nostri bei paesi (del Bel Paese, quale ironia..) per poi il lunedì tornare in città.

Il sentimento cittadino è categoria economica sufficiente? Se si nutre del mito dell’abbandono, dell’estetica del luogo fantasma, non lo è.

Ma se il bene culturale (essenza riconosciuta dei nostri borghi storici) diventasse categoria economica oltre l’estetica, e da sentimento si trasformasse in costruzione di senso, forse avremmo un terreno da cui ricominciare: partendo da quello che i paesi rappresentano sempre più come luogo di ritrovo di comunità, anche come categoria di un settore riconosciuto del nuovo turismo, che rifugge l’anonimato delle metropoli per ritrovare un senso di relazione fra il ‘noi’ che abita quei luoghi. Un turismo rideclinato, secondo quanto qui a Matera ripetiamo nel dossier di Matera 2019, a ‘cittadinanza temporanea’, non per dare una patacca allo straniero che arriva, ma per rispostare il focus su di un concetto allargato di cittadinanza. Cittadinanza di chi ci vive, di chi arriva da migrante (nelle sue diverse accezioni, ‘ricche’ e ‘povere’), per divenire abitante vero.

Ma per concepire questa nuova comunità, servono comunque nuove economie e nuove regole: serve reinventarsi l’agricoltura, l’allevamento, l’artigianato, nuovi saperi (che spesso gli stranieri tout court comunque portano).

Di qui la proposta: che esso avvenga sul terreno delle politiche delle aree interne (1, meglio 3 aree del nord, centro, sud dove sperimentare) o sul dibattito della ricostruzione dei luoghi terremotati (che vada oltre alla ricostruzione di corpi già malati, solo in nome della conservazione di un bene culturale stanco – fatte salve naturalmente le case di chi ci viveva), sperimentiamo imprese culturali e creative insieme, a sistema (e non come decorazione aggiuntiva), sui diversi fronti: rigenerazione urbana e agricola, open design per l’artigianato, open school per i bambini/ragazzi (per entrare nel vivo del problema dell’educazione, lasciata ora a classi spesso plurime), beni culturali/musei come laboratori aperti di nuova cittadinanza anche attraverso l’uso di open data (e non come luoghi silenti dove ammirare il passato).
Mettiamoci alla prova: concependo anche una burocrazia creativa che vada oltre gli stanchi tavoli istituzionali, e che sappia veramente mettersi al servizio di nuove dinamiche, di nuovi saperi, di nuove oikonomie.
Avremmo bisogno qui di entrare nel dettaglio delle centinaia di esperienze che già lavorano in questa direzione purtroppo spesso frammentate ed isolate. Ma questo forse è il senso del dibattito di queste pagine: avviare visioni intorno ad un nuovo vocabolario aiutandole a divenire sintesi e modello alternativo.

Pubblicato da Il giornale delle fondazioni il 15 Novembre 2016

In copertina: Joseph Beuys

 

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