Di Luigi Nacci.
Ci sono estati chiuse come scatole, sigillate. Sono estati che trascorri in una stanza, in ufficio, o su un letto d’ospedale, in una cella, in uno spazio delimitato da pareti che ti sono ostili. Capitano estati così. A volte è il lavoro che ti costringe a questa clausura, altre volte la malattia, tua o di un tuo caro, oppure la necessità di concentrarti per originare un’opera, o è la depressione che ti impedisce di uscire. Sei rinchiuso in un buio che non se ne va nemmeno quando spalanchi le finestre. Sei al centro della stanza ma è come se non ci fossi. È come se la tua vita fosse fuori, e tu non fossi altro che un organismo che respira, ma che non è in vita. Capitano estati così.
Fuori la gente si tuffa e trattiene il respiro, costruisce castelli sulla battigia, alcuni prendono il mare nelle mani e lo portano fischiettando nelle fontane, altri fanno l’amore intensamente, più intensamente che in inverno. Molti si scattano fotografie e le spediscono in giro per il mondo, affinché tutti vedano quanto sono felici i loro piedi e i loro capelli, e le loro occhiaie che svaniscono bagno dopo bagno e i pori della pelle aperti e ricettivi e poi le unghie, le sopracciglia, i nei: un tripudio di felicità che tutti devono ammirare. Le fotografie arrivano ai davanzali delle tue finestre, ma di fronte al buio si spaventano, scappano, si dileguano, e di loro nessuno saprà più nulla.
È da quel buio che nasce il desiderio incontenibile del cammino. Non è apparentabile al desiderio di andare in ferie, dopo un anno di lavoro. Chi è al centro del buio non ha bisogno di ferie, perché non sa che farsene. Né di spiagge, di hotel, di baite, di centri storici e di musei. Chi sta in quel buio non desidera mettersi la casacca del turista. Desidera molto di più. Non una camminata in montagna o nelle pinete costiere, di più. Chi sta al centro di quel particolare buio desidera solamente una cosa: il cammino.
Che cos’è dunque, il cammino? È ciò che inizia a un passo dal buio. È una speranza di vita nuova, una speranza che non cessa di sperare, una roulette russa, una guerra, un finimondo. È davvero difficilissimo spiegarlo a chi ancora non l’ha provato. Ed è semplicissimo da spiegare, anzi, inutile da spiegare, a chi lo ha vissuto. Non è una camminata, non è un viaggio, non è una vacanza, non è una fuga: è esattamente tutto ciò che occupa lo spazio che inizia a un passo dal buio.
Come dirlo alle persone che ti sono accanto? Come far capire loro che quello di cui hai bisogno non è una pausa? Come dire loro, senza farsi fraintendere, che hai bisogno di stracciare l’agenda, il contratto, il mutuo, ogni genere di impegno, e di andare a riprenderti la tua vita, senza sapere su quale strada essa sia? Come dire loro che partirai non sai per dove, che non sai dove dormirai, che non sarai raggiungibile, che non sai se e quando tornerai?
Ci sono estati chiuse, per alcuni. Per quelli come te, ad esempio, chiusi nelle stanze, che nessuno vede. Stai al centro del buio per raccogliere le forze, per rendere esatte le parole, per scrivere lettere che molto probabilmente non spedirai. Le fotografie scattate dalle maggioranze gaudenti si fermano ai tuoi davanzali, si spaventano, si dileguano in preda al terrore. Stai al buio finché un giorno, raggiunta la massima concentrazione dei tuoi pensieri e dei tuoi sensi, accendi la luce, prendi qualche vestito dall’armadio, riempi lo zaino, e parti.
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Pubblicato da Doppiozero il 15 Gennaio 2017
in copertina: Agnes Meyer-Brandis, “Mobile Moon Training, The Moon Goose Colony”, 2011,VG-Bildkunst 2011/12, photographer: Tamara Lorenz