Uscire dal vecchio mondo. Dialogo con Fabrizio Barca

5 aprile 2017 12:47 di jazzi

Di Giovanni Carrosio e Filippo Tantillo.

Dialogo in forma di intervista tra Fabrizio Barca, ex Ministro alla Coesione Territoriale, promotore della Strategia Nazionale Aree Interne, Filippo Tantillo, ricercatore territorialista e coordinatore scientifico del team tecnico di supporto al Comitato Nazionale Aree Interne, Giovanni Carrosio, coordinamento del team di supporto tecnico al Comitato Nazionale Aree interne. Perché mai come oggi le politiche pubbliche hanno bisogno di trasparenza e consapevolezza.

Giovanni Carrosio: Pur provenendo da percorsi diversi, ciascuno di noi che oggi lavora alla Strategia Nazionale Aree Interne ha una chiara percezione che un forte desiderio di cambiamento stia attraversando il paese, e che questo desiderio gira intorno all’idea di “liberare energie”, energie e risorse che soprattutto nelle aree interne sono frustrate dall’assenza congiunta di servizi alla cittadinanza e mancanza di prospettive per i giovani.

La Strategia Nazionale Aree Interne cerca di intercettare questo desiderio in alcune aree del Paese e di farlo dialogare con le politiche pubbliche, dando gambe e strumenti al cambiamento, liberandolo dagli elementi costrittivi. Per fare questo, la Strategia si è dotata di un impianto teorico, di una metodologia e di pratiche di lavoro di campo di rottura rispetto al tradizionale modo di operare della pubblica amministrazione. Siamo ancora nel mezzo del nostro lavoro, ma qualche bilancio è già possibile, in particolare sul metodo con il quale abbiamo deciso di operare, che non ha lasciato indifferenti i nostri interlocutori, siano essi cittadini, amministratori locali, amministrazioni regionali e centrali.

Alcuni hanno fino ad oggi osteggiato il metodo, destabilizzati nelle proprie posizioni di rendita o nelle proprie consuetudini; altri hanno aiutato a praticarlo con convinzione; altri ancora hanno nutrito importanti aspettative che sono andate deluse. Chi a vario titolo è stato coinvolto fino ad oggi nella Strategia, infatti, è partito da aspettative differenti e oggi ha opinioni e valutazione differenti sull’efficacia di quello che si sta tentando di fare: alcuni si aspettavano una azione dirompente capace di portare al centro gli innovatori nelle strategie di sviluppo; in altri prevaleva l’ambizione di promuovere un forte rinnovamento del modo di operare della pubblica amministrazione; in altri ancora la volontà di abilitare soggetti istituzionali molto deboli, come gli amministratori delle aree interne.

In ogni caso, le aspettative riguardano la capacità di una politica di liberare delle forze inespresse; ci stiamo riuscendo? Tu cosa ci vedi di dirompente in quello che stiamo facendo? Stiamo rompendo dei meccanismi? Ci sono elementi di valutazione che già oggi riusciamo a raccogliere?

Fabrizio Barca: sì, anche se non ovunque. Per quanto riguarda l’azione in ambito istituzionale, abbiamo segni visibili di come la Strategia Nazionale Aree Interne abbia prodotto due rotture, e come ambedue riguardino il modo in cui l’amministrazione pubblica prende le decisioni. Queste rotture sono manifeste, con eccezioni sulle quali dovremo ragionare.

La prima rottura riguarda una parte dell’amministrazione centrale e alcune regioni. Stiamo parlando di soggetti deputati a fare programmazione di spesa, i quali grazie alla Strategia Nazionale Aree Interne hanno acquisito sensibilità ai contesti territoriali, sono diventate meno “cieche ai luoghi”, o space blind. Hanno visto con i loro occhi, attraverso confronti diretti sul territorio, animati da persone e numeri, che ogni data regola o istituzione generale può produrre effetti diversi in contesti diversi: quel bando per il trasporto pubblico locale che può forse funzionare in una cittadina di 50mila o più abitanti non funziona in aree dove la popolazione è sparsa in ampi territori; e lo stesso vale per le regole della scuola o le strutture della salute.

La seconda rottura è avvenuta nelle Amministrazioni locali, tradizionalmente i beneficiari delle spese programmate, che hanno preso coraggio sul fatto che si può mettere in discussione il modo tradizionale di prendere le decisioni: anziché ascoltare solo chi hai già ascoltato, le aziende esistenti, i consiglieri di sempre, ci si può esporre al confronto pubblico acceso e informato. Seguendo i principi di quel modello di sviluppo innovativo che in Europa chiamiamo place based, o rivolto ai luoghi, abbiamo coscientemente assunto la destabilizzazione degli assetti tradizionali come il primo scalino per un ripensamento dei luoghi e delle persone, e l’abbiamo proposta ai territori come strumento per rompere consuetudini amministrative che non garantiscono rinnovamento delle classi dirigenti e che anzi, in molti casi, lo ostacolano, col risultato di favorire la fuga dei giovani e la perdita di popolazione.

D’altra parte, è un fatto che risultati apprezzabili non siano diffusi né a tutte le amministrazioni né a tutti i luoghi. Questa situazione deriva dalla forte ma prevedibile resistenza che viene opposta ai cambiamenti a causa della perdita di potere che le élites locali intravedono nel metodo del confronto aperto, nell’innovazione, e a volte dell’incapacità dell’amministrazione pubblica di reggere il confronto con le competenze diffuse che risiedono nella società civile.

Gli stessi eletti vivono, del resto, un senso di impotenza di fronte alle sfide che impone loro il governo del paese, e che deriva dalla complessità del sistema di conoscenze necessario per prendere decisioni. In questo, l’Italia non è sola; nessun paese democratico ha trovato ancora politiche in grado di ridisegnare contemporaneamente la forma istituzionale e il ruolo della cittadinanza in questo assetto. Si tratta di mutamenti politico/culturali profondi, e oggi una politica come la Strategia Nazionale Aree Interne, anche date le risorse di cui dispone, non può realisticamente ambire a cambiare il mondo. Può tuttavia sperimentare un mondo diverso. E produrre risultati. E apprendere da essi. E indicare una nuova strada. Non solo per quelle aree.

Più in generale, ho la sensazione che oggi, i campi di battaglia dove tutti noi possiamo batterci e dove la democrazia può progredire e uscire dallo stallo siano due e che essi non possano per ora essere unificati.

Da una parte, si possono cercare di trasformare le Istituzioni, la loro cultura e metodo di lavoro, portandole sul campo, a confronto con una società ricca di conoscenza, per aprirsi al confronto con i cittadini attivi e sperimentare. Dall’altra parte, ci si può impegnare stando dal lato dei cittadini o dei lavoratori, sostenendo i movimenti che si battono per aprire spazi, senza preoccuparsi immediatamente delle conseguenze amministrative dei propri atti: sto con la cittadinanza, lavoro per la cittadinanza, e le istituzioni dovranno prima o poi organizzarsi per rispondere.

Questi due piani, anche quando (di rado) mossi da simili intenti non combaciano e non lo faranno per molto tempo. Se accadesse ciò, avremmo quel nuovo assetto democratico che in questa fase non abbiamo.

La domanda che vi ponete nel lavoro quotidiano, tu Giovanni, tu Filippo, e tutti gli altri è: per cambiare le cose dobbiamo militare più con la lo stato o più con la cittadinanza? Si può provare e fare anche tutte e due le cose, pur sapendo che se tenti un compromesso tra le due, rischi di non servire né l’una né l’altra causa. In ogni caso bisogna essere consapevoli che i due mestieri in questo momento non collimano.

Se sei con la cittadinanza non potrai sottrarti dal combattere delle battaglie che ti porteranno a forzare le regole dello Stato. Se sei con le Istituzioni, non ti puoi disinteressare delle regole del sistema e in qualche modo devi ricondurre a quelle il tuo impegno. Ovunque tu sia, sai che i due processi, nel medio lungo termine, e solo allora, convergeranno. Ma nel presente, se sei nello Stato, come noi in questa operazione, devi chiederti: date le risorse di cui dispongo, è meglio portare tutti i territori ad un compromesso accettabile tra innovazione e tradizione, oppure puntare su poche operazioni fatte bene assai, lasciando che altre falliscano?

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Giovanni Carrosio: Le persone che la Strategia cerca e incontra sui territori e il gruppo di persone che lavorano all’attuazione della strategia sono accomunate dall’urgenza del cambiamento. Quelli che ci credono, che si impegnano a portarne avanti la visione di fondo, che va oltre la dimensione della procedura amministrativa, lo fanno con investimenti morali e sentimentali: si è configurata ormai nel paese una comunità di militanti delle aree interne, formata da piccoli imprenditori, dirigenti scolastici, amministratori, policy makers, dirigenti pubblici, ecc., che agiscono con una comune intenzionalità dentro i propri ambiti di competenza, facendo della Strategia aree interne una politica fortemente generativa, come la avrebbe chiamata Minervini.

A oggi, però, questa visione e questa pratica di cambiamento, che trova riscontro e tesse alleanze in tanti pezzi di Paese reale, non sembra trovare un appoggio sufficiente dentro la macchina dello Stato. La Strategia deve fare forzature all’interno delle istituzioni, perché ripensino il loro modo di operare. È sostenibile una Strategia nazionale per le aree interne, che ha anche in mente di modificare le modalità di approccio delle amministrazioni centrali nei confronti dei territori, che si affida ad un gruppo di persone che agiscono in modo “entrista” dentro le istituzioni, difendendo a volte con difficoltà i propri spazi di agibilità all’interno della macchina amministrativa?

Fabrizio Barca: L’ottimo sarebbe che le autorità politiche del paese, in un grande afflato, fossero consapevoli che questo è il nuovo modo di esplorare e governare la società nelle aree rurali, come anche nelle aree urbane e metropolitane. Consapevole dei propri compiti e del proprio ruolo ma anche della propria ignoranza, lo Stato sarebbe allora guidato a impiegare modalità partecipative di raccolta e confronto delle conoscenze per produrre collettivamente innovazione, accetterebbe il conflitto tra visioni e soluzioni differenti come metodo di lavoro per piegare la propria azione settoriale territorio per territorio. Non siamo a questo punto. Siamo ancora in una fase sperimentale dove al meglio questo nuovo modo di fare amministrazione viene accettato come un prototipo. E il metodo resta così fragile, esposto alle intemperie. Ma pur sempre riconoscibile.

È sostenibile tutto ciò? O rischia di non soddisfare la domanda di cambiamento degli innovatori militanti e al tempo stesso di essere respinta, annullata, dalla reazione dei rentier locali e nazionali di sempre, che già si lamentano perché non si sono spesi ancora i soldi? “Date i fondi a noi, ai nostri progetti cantierabili e vedrete!”, già si sente mormorare. Lo vedremo in queste delicate settimane quando, finalmente, il lungo lavoro di preparazione delle strategie sta arrivando in porto dalla Lombardia alla Sicilia.

Filippo Tantillo: Ma c’è qualcuno consapevole? La politica capisce lo sforzo di innovazione, ancor prima di condividerlo o meno?

Fabrizio Barca: Chiedi molto alla politica dopo anni di assenza di un confronto culturale su come si amministra e sulle politiche pubbliche! Del resto, l’operazione aree interne è nata in un contesto particolare, il governo Monti, dove cinque ministri decidono consapevolmente di montare un’operazione, senza che questa provenisse dalla cultura delle classi dirigenti politiche del Paese.

La politica se l’è ritrovata, e ne ha avvertito un dato: che era lo strumento a disposizione per presidiare un pezzo di Paese, altrimenti “abbandonato”. Per questo, a distanza di tre anni, la strategia ancora esiste. Per la consapevolezza crescente che abbandonare le aree interne equivale a negare un pezzo importante dell’identità nazionale. Per la consapevolezza che il mancato accudimento di questo territorio ha conseguenze visibili anche nelle altre aree del paese, come mostrano le alluvioni liguri. Ma soprattutto perché ora si scopre che le aree rurali sono divenute in Occidente il luogo dell’opposizione alle élites urbane, della domanda di intolleranza e di autoritarismo, proprio per la “disattenzione spaziale” di cui sono state oggetto, ancor più delle periferie, da parte delle politiche e della cultura neo-liberista: e nello scoprirlo ci si rallegra che in Italia esista una strategia che se ne occupa.

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Filippo Tantillo: Ma è sufficiente la vaga conoscenza che stiamo lavorando su un pezzo di Paese non presidiato, senza che vi sia consapevolezza su come lo stiamo facendo, sui presupposti teorici e sulle pratiche nuove che stiamo portando dentro le amministrazioni centrali e regionali?

Fabrizio Barca: No, non è sufficiente. Te l’ho detto, vedo un rischio forte: che di fronte ai tempi necessari per mettere in piedi questa politica, alla nostra scelta dura di chiedere alle élites locali di “rimettere nel cassetto i propri progetti cantierabili di sempre”, gli amministratori locali che hanno osato, che hanno accettato il metodo, possano non reggere di fronte alle scadenze elettorali locali. E al tempo stesso che gli amministratori che si sono piegati di malavoglia al cambio di metodo, all’apertura agli innovatori, al confronto aperto, cerchino la sponda nazionale, sempre con l’argomento elettorale, per tornare alle loro azioni compensative di sempre: soldini di qua e di là senza una strategia. La politica nazionale saprà reggere, tenere duro, di fronte a questi possibili, probabili, comportamenti? Ripeto: lo vedremo.

Giovanni Carrosio: Testimonia una scarsa consapevolezza il fatto che dopo l’ultimo terremoto nelle aree interne dell’Italia centrale, nel lanciare Casa Italia, un programma a lungo respiro di messa in sicurezza del patrimonio edilizio del paese, un programma che in qualche maniera prende le mosse dalle nostre riflessioni (la necessità di presidiare un pezzo di Italia che sta morendo demograficamente), non si sia mai citata la Strategia Nazionale Aree Interne?

Fabrizio Barca: In realtà proprio nel periodo più recente la politica nazionale, il Ministro di riferimento, ha richiamato più di una volta questa Strategia come centrale per il paese. Vedremo se con l’approvazione delle prime 10-12 Strategie, anche da parte di aree-progetto del sud del paese, se con l’avvio operativo dei progetti, con gli Accordi di Programma Quadro, la comunicazione politica avrà un coerente crescendo. Intanto però dobbiamo guardare anche in altra direzione. Dobbiamo sviluppare il dialogo già avviato con l’associazionismo, con le Fondazioni, nell’amministrazione locale. Deve crescere attorno alla Strategia un consenso che generi contaminazione fra le classi dirigenti. Non solo nei partiti.

Filippo Tantillo: Proprio a questo proposito, la Strategia Aree interne è stata pensata anche come strumento di promozione di una nuova classe dirigente. I dati mostrano che la nostra è stata un’operazione di ampio respiro: in due anni funzionari, tecnici di cinque ministeri, della Presidenza del Consiglio dei ministri, esperti e ricercatori ingaggiati hanno percorso insieme decine di migliaia di chilometri, raggiungendo le zone più remote del paese, confrontandosi continuamente e costruendo durante i lunghi spostamenti da una zona all’altra una visione comune. Abbiamo parlato e messo al lavoro oltre mille comuni, intere strutture regionali e decine di migliaia di cittadini. Andiamo in giro portando il messaggio che l’amministrazione pubblica sta cambiando, si sta interrogando sui bisogni e i desideri dei cittadini delle aree interne. E che la nostra presenza sui territori ne è la dimostrazione tangibile. Ma quanto effettivamente ci stiamo riuscendo?

Il nostro lavoro è stato improntato su due binari: la strada delle alleanze, intercettando nelle amministrazioni le dinamiche e i bisogni di cambiamento, e i possibili alleati per fare emergere questa nuova classe dirigente. L’altra strada è quella di aprire, di portare gli innovatori e le loro istanze dentro al processo decisionale, e contemporaneamente spingere le istituzioni a dare risposta a queste istanze.

Se dobbiamo fare un bilancio, questo è in chiaro scuro. In alcune aree riusciamo a intervenire, ma in altre no. Nel Sud incontriamo grandi difficoltà nelle aree appenniniche a cavallo fra Campania, Basilicata e Puglia, mentre dai monti della Sicilia e dell’Abruzzo vengono proposte di qualità. Altrettanto possiamo dire nel nord del paese, dove a fronte di aree dove raccogliamo progettualità sane e innovative in altre registriamo forti sacche di resistenza al cambiamento. In queste ultime aree costruiamo poche alleanze e deboli. Sia perché troviamo poco “spirito di servizio” all’interno della Pubblica amministrazione, poca attenzione ai contesti, scarsa capacità di lettura e comprensione del paese, sia perché abbiamo poca forza di mandato. Sul campo abbiamo cercato gli innovatori, anche nell’organizzazione dei servizi locali, e non ne abbiamo trovati quanti speravamo. Poi abbiamo il tema dei giovani, esclusi dai meccanismi di governo locali e fortemente sfiduciati nella capacità della amministrazione pubblica di cambiare marcia.

Fabrizio Barca: La Strategia Aree Interne può funzionare se incrocia nel territorio forze endogene che erano bloccate dalla trappola del sottosviluppo, ma a cui noi apriamo spazi. Si può trattare di nuove figure innovative, di giovani esclusi finora dalle decisioni. E ci capita spesso. Ma può trattarsi anche di pezzi della classe dirigente precedente che sceglie di “cambiare partita”.

Ad una parte elevata di sindaci ed amministratori locali non era mai stato offerto in queste aree uno spazio reale per far valere il proprio punto di vista e un metodo per dargli forma, perché fino ad ora ci si era limitati a traferire loro fondi, anche cospicui, con la sola preoccupazione di “spendere” … magari “per non restituire i soldi a Bruxelles”. Ora che la possibilità viene offerta, molti quadri locali di valori scelgono con sincerità il cambiamento. Anche questo ci è capitato spesso.

Abbiamo capito che si poteva vincere quando nell’Alto Reggiano si è alzato il capo della Azienda sanitaria Locale, raccogliendo i bisogni speciali, distintivi, di quelle terre e proponendo cambiamenti chiari che potevano soddisfarli. O quando nel Comino, una donna immigrata, nera, ha preso il microfono e ha raccontato un progetto per una vita migliore, possibile in quelle terre.

O quando nelle Madonie è entrato in partita, in un’alleanza col territorio, il vertice dell’istituto astronomico. O ancora quando, di fronte a un Ministero dell’istruzione che abbandonava la logica delle deroghe e indicava la disponibilità ad una “curvatura territoriale” della propria azione, l’Antola o la l’Alto Sangro hanno accettato il rischio di cimentarsi con questa novità.

Ma dove nulla di tutto ciò avviene? Se nel territorio non ci sono o non riescono a manifestarsi o noi non riusciamo a dare coraggio a innovatori e militanti del cambiamento? E caparbietà, interessi o una subentrata incapacità negano alla vecchia politica e alla vecchia amministrazione ogni atto di insubordinazione ai rituali del passato, al comportamento da rentier? Beh, in queste condizioni nulla si può fare e, diciamocelo, nulla andrebbe fatto. Perché la nostra Strategia porta nei territori metodo, ma non ha la conoscenza né può assumersi la responsabilità di forzare scelte che non corrispondano ad un effettivo capitale locale di saper fare e di imprenditorialità. Se lo facessimo torneremmo a politiche errate del passato.

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Giovanni Carrosio: riprendiamo il tema questione meridionale e giovanile, che mi pare il referendum del 4 dicembre 2016 ci abbia posto con forza. Nelle zone centrali del meridione stiamo faticando molto a chiudere le strategie e ad affermare il nostro metodo di lavoro. Nelle aree interne a livello nazionale la questione giovanile viene fuori con particolare vigore: pensiamo al tema dell’accesso alla terra, tema sul quale i soggetti giovani, senza mezzi di produzione, entrano fortemente in conflitto con l’assetto istituzionale della proprietà fondiaria e con quelle élites delle aree interne, abituate a nutrirsi di sottosviluppo e di politiche residuali, che lavorano alla conservazione dello status quo per non cedere potere ai nuovi soggetti. Esiste una questione meridionale e giovanile specifica nelle aree interne?

Fabrizio Barca: Capisco la voglia di affiancare la lettura della questione giovanile e del mezzogiorno, ma terrei distinte le cose. Inoltre la mappatura delle tensioni sociali che ho in mente è più articolata, e ruota intorno a tre questioni.
La prima riguarda il lavoro subordinato tradizionale e del terziario avanzato. La frammentazione della società è una forzatura, è in larga misura un costrutto mentale, un mito costruito per frammentare e indebolire così, davvero, il lavoro subordinato nelle sue nuove forme. La pur sana attenzione alla diversità ci ha distolto dal tentativo di individuare i blocchi sociali, che pure esistono. Oggi i giovani di Airbnb sono sfruttati così come i lavoratori del manifatturiero: si tratta di forme di pseudo lavoro autonomo quando in realtà questi giovani non hanno accesso al capitale. Troviamo questa faglia di classe storica anche nelle nostre aree interne.

La seconda questione riguarda il deficit di cittadinanza del Sud che affonda nella gravità della condizione della pubblica amministrazione e che si estende ormai fino a ricomprendere Roma. Si manifesta in un sistematico divario nella qualità dei servizi fondamentali: della salute, dell’istruzione, della cura degli anziani e dei disabili, della mobilità su gomma e su ferro, della giustizia e delle carceri, della sicurezza e dei tempi amministrativi per fare impresa.

La terza faglia è quella fra aree urbane e resto del paese, le nostre aree interne. Essa è il frutto – certo del dato oggettivo di una distanza dai centri di servizio -, ma è anche il frutto di un’ideologia, quella che ho chiamato delle “agglomerazioni perfette”, per cui lo sviluppo futuro del mondo intero vedrebbe inesorabilmente e auguralmente una concentrazione della popolazione nelle città, specie nelle grandissime città. Un’ideologia che ha alterato le regole dell’azione pubblica e dirottato investimenti pubblici giganteschi in questa direzione, senza che alle persone fosse data la “libertà sostanziale”, per dirla con Sen, di decidere dove vivere.

Questa terza faglia assume in tutto il mondo tratti molto aspri. Lo hanno mostrato in sequenza il Referendum britannico e le elezioni statunitensi e austriache. Lo confermano i dati relativi al voto Lepenista in Francia. I cittadini delle aree rurali avvertono incomprensione e disprezzo da parte della borghesia urbana, di destra o di sinistra che sia, avvantaggiata da globalizzazione e cosmopolitismo. Temono la diversità crescente, avvertono l’incertezza delle norme di comportamento, dubitano della propria identità, osservano il disinteresse delle classi dirigenti nazionali (minaccia normativa).

Da questo punto di vista l’Italia è meglio posizionata. Perché le sue aree interne, fatte di un territorio rugoso, che alla diversità originaria dei climi e delle umidità – anche a pochissimi chilometri (se non centinaia di metri) di distanza – ha aggiunto quella dei popoli che l’hanno successivamente invasa e dei semi che vi hanno piantato e delle musiche e dei cibi che hanno prodotto, garantiscono a chi ci vive un’identità più robusta, che limita la minaccia normativa. Eppure, la disattenzione della classe dirigente nazionale è stata sinora identica, colpevole due volte: dei servizi disegnati a stampino come si trattasse di aree urbane, e di trasferimenti e sussidi compensativi corrompenti.

Ecco dove è intervenuto il cambio di marcia della Strategia, che prima ancora di finanziare un solo progetto, ha già dato un segnale a quelle aree. Un segnale di attenzione genuina da Roma… anche se a lungo la Roma politica non è sembrata occuparsene.

Mille sindaci e molti loro cittadini, quelli che siamo riusciti a coinvolgere, si sono sentiti “curati”. Con lo strano “autobus del Comitato” – che poi in realtà era sempre diverso… avessimo avuto un simbolo! – siamo andati in posti nei quali lo Stato (nazionale) non era mai arrivato. Abbiamo portato sindaci di piccoli comuni a confrontarsi nei palazzi romani, non a “protestare” ma a confrontarsi. Ricordatevi l’intervento del sindaco di Canosio (provincia di Cuneo, 78 abitanti) a Palazzo Chigi, che ha espresso tutte le proprie perplessità davanti al capo del Dipartimento Politiche di Sviluppo e all’intero gruppo di lavoro della Snai. E poi il segnale forte sull’accesso alla terra, in aree dove la differenza tra chi ha avuto un nonno con la terra e chi no determina ancora oggi la scelta di lasciare il campo ed andare via.

E tutto ciò è stato vero sia al Sud, sia al Nord. Certo, le aree interne del Sud risentono del deficit di cittadinanza di quell’intero pezzo di paese. Ma non è questione specifica di quei luoghi. Esiste invece, all’interno del Sud, il problema di una vasta area a cavallo fra Campania, Basilicata e Puglia dove le masse finanziarie, investite negli anni da politiche errate, rendono particolarmente difficile l’uscita dal vecchio mondo. Anche su questo avremmo bisogno che la politica nazionale si misurasse.

 

Pubblicato su cheFare il 5 Aprile 2017

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