Piero Gilardi: la natura come paradosso
7 maggio 2017 17:55di Carlotta Sylos Calò
Si è aperta il 13 aprile al MAXXI la mostra Nature Forever, curata da Hou Hanru, Bartolomeo Pietromarchi e Marco Scotini, e dedicata a Piero Gilardi. Profondamente influenzata dal pensiero critico di Michel Foucault, Gilles Deleuze e Felix Guattari, e tra gli esempi italiani più interessanti di impegno attraverso l’arte in questioni quali, l’ambiente, l’ecologia, il nucleare, la speculazione edilizia, la ricerca di Gilardi è stata tra le prime a interessarsi del rapporto tra uomo e natura, a utilizzare materiali industriali e tecnologici, per proporre una reinvenzione di luoghi, relazioni e paesaggi, convertendo l’evento artistico in un rito collettivo dalla caratterizzazione sociale e politica. Con questa mostra – ricca di opere e documenti – e il suo catalogo (Nature Forever. Piero Gilardi, a cura di Anne Palopoli, Quodlibet) il MAXXI rende omaggio a una delle ricerche più coerenti e impegnate dell’arte italiana, indirizzata a ribadire le energie creative e critiche del soggetto individuale e sociale.
Torinese, diffidente verso l’ambiente dell’accademia che considera ‘viziato’, Gilardi dopo il liceo artistico prosegue la sua formazione da autodidatta prediligendo, nel panorama piemontese, le mostre del Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista, caratterizzato dalla libertà d’uso dei materiali e dalla critica alla logica capitalistica, cui oppone un’arte in grado di sollecitare il pubblico, attivandone pensiero e sensibilità. Questi riferimenti sono fondamentali per il giovane Gilardi che con Michelangelo Pistoletto e Aldo Mondino frequenta lo spazio gestito a Torino dal critico Michel Tapié e s’interroga sulla possibilità di produrre «oggetti artistici nello spazio del vissuto» (Intervista di Mirella Bandini a Piero Gilardi (1973) ripubblicata in Mirella Bandini, Arte Povera a Torino 1972, Umberto Allemandi&Co, Torino 2002, p. 99).
L’interesse per il legame arte-vita, interpretato in varie declinazioni da molti giovani artisti di quegli anni, si traduce presto in Gilardi nella creazione di opere capaci d’interagire con il vissuto, individuale e collettivo, in cui la natura, presa come immagine e come oggetto, rimanda alla qualità della relazione tra uomo e realtà illuminando il quotidiano dei suoi spettatori. Nascono così, nell’ottobre del 1965, i Tappeti-natura, oggetti in resina poliuretanica espansa, che riproducono – in scala reale e nei minimi dettagli – forme vegetali, animali e minerali ricreando interi habitat, dal greto di fiume all’orto, dal fondale marino al campo di papaveri. Simulacri che solo il tatto può smentire, questi lavori inducono lo spettatore a ridiscutere il valore e la sostanza di ciò che vede. Potenzialmente oggetti sostitutivi d’arredamento, pezzi di natura finta, isole artificiali messe a terra, più che esposte, calpestabili e toccabili come un’opera d’arte usualmente non è, e acquistabili a metro come pezze di stoffa, queste opere sono anche dispositivi di una riflessione sul consumo, sull’essere e l’apparire. Attraverso i Tappeti-natura e i successivi Vestiti-natura, paesaggi abitabili e poi indossabili, Gilardi segnala allo spettatore la complessità dell’esperienza – di un corpo a corpo con la realtà non regolato dall’uso e non limitato all’apparenza del visivo – e lo fa sottintendendo il dramma di una natura mortificata e stravolta dal mercato e dall’industria.
Questo gruppo di opere reinventa dunque l’esperienza quotidiana giocando sul complesso rapporto naturale-artificiale e, insieme, indica lo stato fluido dell’oggetto d’arte: da dispositivo meravigliante a merce. Create con l’intenzione di recuperare l’esperienza individuale (a livello del pensiero e del corpo) queste opere pop – che rifuggono però la semplice funzione presentativa e si fanno forti del concetto marcusiano del gioco come trasformatore della realtà – esortano a riscoprire valori soggettivi negati dalla realtà massificata e standardizzata della civiltà industriale, intervenendo direttamente sul sistema di relazioni tra fruitore e oggetto, non solo ricercando nuove possibilità estetiche ispirate alla tecnologie e ai mass-media, ma soprattutto occupandosi di quelle relazionali e critiche. Un atteggiamento questo che è segno dei tempi e viene anzitutto dall’esperienza personale: quella di una natura deturpata che Gilardi intende ricostruire in un oggetto domestico da «offrire all’uso confortevole del corpo» (Nature Forever, p. 90).
Attraverso immagini-oggetti surrogati e paradossali, che imitano la decoratività dei consumi ma ne rifuggono la sostanza, Gilardi libera le esthesis e si schiera a favore di un rapporto dialettico tra cultura e società, rimanendo fedele a questo atteggiamento anche quando nel 1967, al culmine del successo per i suoi Tappeti, decide di rinunciare alla creazione di oggetti e dedicarsi alla dimensione comunicativa e relazionale dell’arte continuando a investire sulla “carnevalizzazione del mondo” per il ribaltamento dei luoghi comuni, delle attribuzioni sociali e delle funzionalità consuete (Marco Scotini, Politiche della vegetazione. Conversazione tra Piero Gilardi e Marco Scotini, Marco Scotini (a cura di), “Alfaecologia”, Speciale di “Alfabeta2”, anno V, numero 35, aprile-maggio 2014).
Nel 1969 Gilardi, infatti, abbandona «la metafora dell’arte» per «partecipare alla lotta rivoluzionaria» (Piero Gilardi, Dall’arte alla vita. Dalla vita all’arte, Parigi, 1981, p. 12) e prende parte ad attività artistiche e culturali (happenings, eventi, azioni, stampa di manifesti) direttamente calate nel sociale (raduni politici, teatro di strada, arte pubblica, atelier popolari) ed esemplificative di un’arte quale “movimento di pensiero”.
È con gli anni Ottanta che l’artista – senza rinunciare all’organizzazione di iniziative politico-culturali – inaugura una nuova fase del suo lavoro sotto il segno della tecnologia digitale e dell’interattività. Alla fine del decennio riprende il binomio natura-cultura affrontato agli esordi, per scandagliarlo ulteriormente attraverso lo strumento delle nuove tecnologie elettroniche e informatiche, approfondendo la dimensione partecipativa sempre perseguita. Così i lavori prodotti, ormai veri e propri ambienti, inaugurano moderne e più forti modalità percettive. Dissociandosi totalmente dalla lettura passiva delle opere pop, Gilardi concentra il suo lavoro sulla polisensorialità cui unisce l’interattività potenziata dalla tecnologia, in grado di associare agli oggetti e agli ambienti il movimento e il suono. Il binomio arte-natura si arricchisce così di un altro importante dato: quello della tecnologia, un attore indispensabile per la costruzione di una narrazione sviluppata in base all’esperienza ludica del pubblico protagonista dell’opera.
Dalle forme biomorfiche dei tappeti, secondo l’obiettivo dell’interattività, della multidimensionalità e della polisensorialità, nasce nel 1989 l’installazione Inverosimile (1989). Si tratta della ricostruzione di un vigneto in forma ambientale, associata a un’interfaccia elettromeccanica capace di gestire i movimenti delle piante. Il pubblico entra nel vigneto e interagisce con l’ambiente: gli alberi si aprono al suo passaggio e le foglie luminose, una volta toccate, emettono vari suoni. Sul pavimento sono proiettati dei cerchi luminosi che, all’aumentare del pubblico nello spazio, si condensano fino a trasformarsi in una sorta di arancia, o di fuoco. Tutto dura venti minuti. La regia dell’esperienza è impeccabile: al pubblico è dato il tempo per acquisire confidenza con l’ambiente e relazionarcisi. L’animazione dell’interattività è suddivisa in quattro temi – il vissuto, l’azione, la crisi e la catarsi – che, pur avendo una dinamica preordinata, restano aperti alla variabilità dei fruitori. La natura “in perdita” – secondo la definizione di Sottsass – dei tappeti ritorna dunque animata, a dimensione naturale, e proprio nel contesto agricolo della vigna, un luogo perfetto per un esercizio di conoscenza “aumentata” della natura all’insegna della collettività e dell’esperienza, che ha come tema principale proprio il triangolo uomo-natura-tecnologia. In un tempo in cui le consuetudini della relazione con l’ambiente, valide per secoli, si sono per sempre alterate, la realtà virtuale e le moderne tecnologie creano una natura potenziata e chiamano l’osservatore a essere un interlocutore attivo, non solo nel funzionamento dell’apparato visivo ed espositivo del lavoro, ma proprio dell’immaginario evocato.
L’opera ricalca infatti non soltanto le forme dell’agricoltura ma anche i suoi sistemi: è collettiva, non autorale, è il frutto della collaborazione tra artisti e tecnici e ha modalità operative che richiamano il lavoro artigiano.
All’esordio del nuovo millennio la natura simulata dei tappeti, ancora legata all’umanesimo modernista, cede il passo a una ricostruzione più accattivante, in forma ambientale e quasi incantata. Qui il pubblico, spettatore e attore, riscopre un nuovo modello esperienziale fondato sulla comunità e sull’ascolto del contesto, un modello quindi alternativo, sul piano macropolitico, a quello sociale dominante, lo stesso che Gilardi contesta con l’ideazione e realizzazione del PAV, il Parco d’Arte Vivente (2008) di Torino.
Parco e centro d’arte interattivo della natura sorto su un’ex area industriale, il PAV è dedicato alla bio-arte e a esperimenti sociali al limite tra pratiche artistiche e rurali. Qui attività come l’agricoltura divengono strumenti di resistenza ai meccanismi economici imperanti del neoliberismo e la comunità del pubblico è chiamata all’esperienza personale. Come accadeva già con i Tappeti, gli eventi degli anni Settanta e le successive installazioni, con l’esperienza del PAV Gilardi riattiva la circolarità uomo-natura e arte-natura stabilendo la funzione primaria dell’arte – non icona ma «espressione di relazioni, di interazioni umane a livello simbolico e di eventi collettivi, transculturali ed ecosistemici» (Piero Gilardi, Common art?, in “Alfabeta 2”, 18 luglio 2015) – e lo fa coerentemente al principio di un’espressività diffusa e socializzata, nutrita dall’interazione tra soggetto e oggetto e tesa a indicare una maggiore e più “naturale” libertà intellettiva ed emotiva dell’individuo e della comunità, secondo una concezione che sboccia negli anni Sessanta e riesce a nutrirsi di quell’energia anche oggi.
L’arte politica di Gilardi nasce infatti in un periodo di grande partecipazione politica e culturale in cui la letteratura, il cinema e le arti visive assumono di fatto il ruolo di avanguardia, in qualche misura anticipando tratti e riflessioni connaturate all’identità del nostro Paese, tra cui quelle riguardanti la natura. Questa presto adottata, oltre che come tema, come materiale attivo nel campo ormai espanso dell’arte, è il tramite attraverso cui guardare la realtà e insieme riconquistare una dimensione umana primaria, sacrificata nel riscatto economico e sociale degli anni del boom. Le arti visive, cresciute fin dalle origini nell’osservazione del paesaggio, rilevano, in pieno decennio Sessanta, il cambiamento portato dall’industrializzazione e dalla civiltà di massa e guardano al rapporto uomo-natura e all’industria, ai suoi materiali e sistemi di produzione. In questo binomio Gilardi è profetico e già coglie – lo nota subito Ettore Sottsass – «il nocciolo concettuale della odierna concezione ecologica, che considera riparativo delle bio-tecnoscienze per il ripristino dei sistemi ecologici alterati e della biodiversità» (Nature Forever, p. 92). Un nocciolo concettuale che, sotteso alla sua intera ricerca, caratterizza tutte le ‘esperienze’ che Gilardi concepisce per il pubblico, nasce da un intreccio tra teoria e prassi sempre perseguito e mira a non lasciarsi portare, esercitando la propria esperienza, e quindi la propria coscienza, in un senso sempre più fattuale.
Le utopie dell’unione tra arte e vita e dell’arte come bene comune degli anni Sessanta e Settanta, finalizzate all’emancipazione delle energie interiori attraverso l’espressione collettiva, si realizzano negli anni Duemila secondo la strada tracciata da un’estetica relazionale che intende, oggi come allora, ma oggi con più strumenti pratici e teorici, l’attività artistica quale possibile incarnazione di un’energia, soggettiva e quindi collettiva, capace di trasformazione.
*Questo contributo nasce dalla rielaborazione di un testo di Carlotta Sylos Calò precedentemente apparso su Il campo espanso. Arte e agricoltura in Italia dagli anni Sessanta a oggi, a cura di Simone Ciglia, CREA Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, Roma 2015.
Alla luce della natura. Uomo, Dio e natura nelle pagine di pensatori classici e contemporanei.
di Matteo Moca. l libro Le fantasticherie del passeggiatore solitario, Jean-Jacques Rousseau rifletteva sull’esigenza di staccarsi dalla frenetica
Leggi tuttoImitare la natura
di Davide Michelin. Sono soprannominati treni proiettile ma forse sarebbe più azzeccato chiamarli treni martin pescatore poiché al becco di questo s
Leggi tutto