Letteratura ed ecologia
13 febbraio 2018 10:52di Niccolò Scaffai.
Arte e natura
Il legame tra arte e natura è antico quanto l’umanità. Le prime tracce “artistiche” lasciate dai nostri antenati rappresentano soggetti naturali, come gli animali stilizzati nelle pitture rupestri di Chauvet, Altamira o Lescaux. Le scene raffigurate sulle pareti di quelle “grotte dei sogni dimenticati” imitano e al tempo stesso inventano la natura. L’aspetto per così dire “creativo” e il potenziale in un certo senso “narrativo” di quegli arcaici manufatti sono evidenti specialmente nelle figure ibride realizzate nel periodo della cosiddetta “rivoluzione del Paleolitico superiore”, che uniscono caratteri antropomorfi e teriomorfi, ed esprimono perciò un grado avanzato di sviluppo cognitivo. Fin da epoche remote, perciò, la raffigurazione della natura ha unito mimesi e invenzione, umano e animale, coinvolgendo due sentimenti opposti ma implicati l’uno con l’altro: il timore e il dominio, la venerazione e il controllo.
Gli stessi elementi e tensioni hanno continuato fino a oggi a incidere nella relazione tra l’uomo e il suo ambiente, trovando in varie forme d’arte il terreno ideale per la loro rappresentazione. In questo libro vedremo come una di quelle arti, la letteratura, esprime tale relazione; vedremo, cioè, come le opere letterarie (soprattutto narrative) entrano in rapporto con l’ecologia, intesa come studio dei legami tra gli organismi viventi e il loro ambiente. Tornerò più avanti su questo e altri significati della parola “ecologia”, e sui possibili esiti letterari delle sue diverse declinazioni semantiche. Ma, prima ancora di soffermarsi su tali accezioni, occorrerà precisare altri termini e concetti, distinguendo – come si farà nel capitolo 1 – l’idea di ambiente da quella di paesaggio, che pure per certi tratti si sovrappongono. Letteratura e ecologia non è infatti una storia letteraria del paesaggio, né dello sguardo sulla natura (per quanto un capitolo, il secondo, sia qui dedicato alla ricostruzione storica delle prospettive sul rapporto tra uomo e natura), ma prende in considerazione le opere che raccontano o illustrano le relazioni tra gli individui e l’ambiente circostante. La natura fa parte di questo sistema di relazioni, ma è spesso modificata dall’opera dell’uomo e confusa negli spazi artificiali del paesaggio urbano.
Fin dall’origine, cioè fin dalle epoche remote a cui risalgono le pitture rupestri e i manufatti preistorici, la rappresentazione della natura è stata raramente oggettiva, realistica; spesso hanno prevalso l’elaborazione simbolica e la stilizzazione, ad esempio nella forma ideale del giardino e del luogo ameno. Più che di natura, si deve allora parlare dieffetti di natura: immagini tipiche che la letteratura adotta di frequente, ma alle quali può anche reagire in modo consapevole o critico. Uno dei procedimenti attraverso cui tale reazione avviene è un dispositivo formale classico – lostraniamento – che rinnova nella tematica ecologica la sua efficacia cognitiva (se ne parlerà ampiamente nel capitolo 1). La sostanza del discorso ecologico consiste infatti nel mettere in discussione i paradigmi tradizionali attraverso cui percepiamo e rappresentiamo la natura: i più comuni tra questi paradigmi sono la relazione asimmetrica basata sul controllo della natura da parte dell’uomo; l’idealizzazione edenica del paesaggio; la distinzione rigida ed esclusiva tra naturale e artificiale. Lo straniamento è perciò una prima, importante forma di relazione tra letteratura ed ecologia; si tratta di una risorsa argomentativa e cognitiva a cui il discorso ecologico ricorre di frequente e di cui la letteratura si è sempre servita. Non si può certo dire, infatti, che l’ecologia abbia insegnato alla letteratura che cos’è e come si usa lo straniamento; d’altra parte, l’ecologia ha dato alla letteratura, soprattutto a quella contemporanea, nuove occasioni tematiche per mettere in scena lo straniamento.
È in questo scambio, in questa reciproca influenza che consiste la relazione tra letteratura ed ecologia. L’intento non è quello di trasferire in modo meccanico principi, procedimenti o valori da un terreno all’altro, dall’ecologia alla letteratura o viceversa; lo scopo invece è mostrare come tra quei campi si sia instaurata ed evoluta nel tempo una relazione nei due sensi. Da un lato, infatti, il discorso ecologico ha adottato costruzioni narrative tipicamente letterarie, restituendole poi sotto forma di connotati caratteristici del romanzo a tema ambientale: una di queste costruzioni corrisponde a ciò che ho chiamato ipercausalità (cap. 4), o causalità paradossale, che coinvolge in una trama complessa elementi e agenti di natura diversa, persone e fenomeni. L’intreccio tende così a imitare l’interazione tra i molteplici fattori che incidono sul clima: anche l’opera letteraria è, in questo senso, un ambiente. Dall’altro lato, la letteratura ha trovato nell’ecologia sia argomenti originali (quello dei rifiuti, ad esempio), sia elementi per rinnovare temi classici come quello della fine del mondo.
Ecologia come narrazione
L’ecologia riguarda sempre di più la nostra vita. Entrata da tempo nel dibattito culturale, sociale e politico, è oggi anche uno dei più importanti campi di esperienza, individuale e collettiva. I problemi legati al degrado ambientale e alle conseguenze dei cambiamenti climatici, così come le occasioni di sviluppo offerte dalle energie rinnovabili e dalla tutela del paesaggio, influenzano molteplici aspetti dell’esistenza quotidiana: dall’educazione all’alimentazione, dal tempo libero alla gestione economico-finanziaria. L’importanza e la pervasività delle questioni ambientali contribuiscono a fare dell’ecologia il contesto di una grande narrazione collettiva, attraverso cui individui e società si collocano gli uni rispetto all’altra e si percepiscono in relazione ai campi del sapere (dalla scienza all’architettura) e ai valori etici e politici. In questa narrazione, la letteratura (insieme ad altre forme dell’immaginario come il cinema) ha avuto e continua ad avere un ruolo cruciale: nei secoli, infatti, la configurazione dell’idea di ambiente e la struttura della relazione tra umano e naturale si sono formate specialmente attraverso i testi letterari. Nella modernità il tema acquista una specifica fisionomia, destinata a precisarsi ulteriormente in età contemporanea, per l’urgenza delle stesse questioni ambientali.
In Italia e in Europa, dove l’ecologia è oggi un tema centrale per scrittori, filosofi e antropologi, occorre riflettere sui legami tra ambiente e letteratura da una prospettiva in parte diversa e autonoma rispetto alla corrente critica detta ecocriticism, diffusa nel contesto nordamericano. Gli studi di ecocritica, di ascendenza per lo più statunitense, si esercitano su opere, autori e contesti anche molto distanti. Il rischio è quello di perdere di vista il nesso tra l’ecologia e la struttura delle opere in cui gli elementi di quella tematica agiscono come figure e determinano lo sviluppo della trama; o di svincolare il tema dalla storia, ad esempio assimilando impropriamente il concetto di ambiente a quello di natura incontaminata.
In questo libro si mette invece al centro la relazione tra ecologia e letteratura facendo reagire la tematica ambientale con i dispositivi formali che ne definiscono la presenza nelle opere d’invenzione. Dispositivi come lo straniamento, innanzitutto. Un autore può ad esempio contare su tale meccanismo per illustrare i danni prodotti dall’uomo sull’ambiente, facendoci guardare con occhi diversi gli effetti di alcune nostre abitudini quotidiane – effetti che di solito ignoriamo o trascuriamo. Lo stesso accade, in forma anche più evidente, quando un’opera di finzione racconta e giudica la civiltà umana dalla prospettiva di altri esseri – animali, creature fantastiche – o da un orizzonte temporale lontano nel futuro o nel passato.
Risorse letterarie e percezione dei rischi
La dialettica e l’inversione tra “naturale” e “innaturale” sono funzioni essenziali dello straniamento, tant’è vero che spesso si applicano anche al modo fantastico oltre che a quello realistico; gli ambienti reali osservati e descritti da certi autori si alternano agli scenari distopici rappresentati da altri. Per questo, le opere analizzate in Letteratura e ecologia riguardano l’uno e l’altro modo.
Ogni vero straniamento porta a una rivelazione, la più importante delle quali è che ognuno è l’“altro” di qualcuno, ognuno è straniero, alieno, specie estranea per chi guarda e giudica da un altro punto di osservazione, nello spazio o nel tempo. Come ha scritto Tzvetan Todorov:
Possiamo scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ognuno di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto quanto non coincide con l’io: l’io è un altro. Ma anche gli altri sono degli io: sono dei soggetti come io lo sono, che unicamente il mio punto di vista – per il quale tutti sono laggiù mentre io sono qui – separa e distingue realmente da me (La scoperta dell’America. Il problema dell’“altro”, tr. it. 1992, p. 5).
Ciò è sempre vero, realmente vero, senza condizioni, quando “io” e “altro” appartengono entrambi alla specie umana; ma può essere paradossalmente vero, in forma di esempio e allegoria, anche quando l’altro è un “soggetto” di ordine diverso, naturale o soprannaturale. Tale forma di reciprocità paradossale è perciò immaginabile, ma ovviamente non attuabile se non sul piano fittivo. Perciò la prospettiva che qui adotteremo non implica una forma di relativismo, né la delega di responsabilità e possibilità d’intervento alla natura, alla materia o ad altre entità indistinte.
La permanenza di un’idea edenica della natura, in base alla quale i diversi elementi si troverebbero (o potrebbero essere ricondotti) in uno stato di reciproca armonia, è in fondo deresponsabilizzante: dal momento che quell’armonia includerebbe anche l’uomo, che ne sarebbe una componente come ogni altro elemento animale, vegetale e materiale, tutto quello che gli esseri umani dovrebbero fare per agire ecologicamente sarebbe rispettare quell’ideale armonia. Ma il “principio responsabilità” non è simmetrico, né olistico. La possibilità d’intervento è solo nostra: l’aragosta immersa nella pentola non può far niente per salvarsi, noi invece sì. Ho preso l’esempio da un saggio recente, intitolato It’s Not Climate Change – It’s Everything Change, di una delle maggiori scrittrici contemporanee, la canadese Margaret Atwood, tra le principali esponenti di un genere che ha preso il nome di climate fiction (spesso abbreviato in “cli-fi”, sul modello di “sci-fi”, science fiction). Il saggio di Atwood invita a riflettere sul fatto che il cambiamento climatico non è solo un’emergenza puntuale, ma è un fenomeno complessivo, che riguarda sì il rapporto dell’uomo con la natura, ma che, prima ancora, coinvolge le strutture del vivere sociale, costringendo a ripensare le dinamiche storiche e il modo in cui le rappresentiamo attraverso le forme simboliche dell’arte e della letteratura. Leggendo i romanzi e i saggi di Atwood, come quelli di altri autori e autrici importanti del panorama contemporaneo, viene ad esempio da chiedersi se il racconto realistico-quotidiano di esistenze individuali, considerate interessanti perché credute esemplari in ogni contesto e latitudine, sia un genere da porre ancora al centro del sistema letterario.
Le risorse della letteratura permettono di immaginare uno scambio di ruoli, mettendo in luce i paradossi di una condizione e l’urgenza di uno stato di pericolo. Nell’epoca in cui viviamo, non c’è niente di più urgente del rischio ecologico e del confronto con chi abita il nostro stesso ambiente, quello naturale come quello sociale, storico e culturale. Nessun’altra questione è così radicale per la legittimità e l’esistenza stessa del sistema di valori insieme al quale o grazie al quale si è evoluta la nostra forma di vita. Ma anche se rimuovessimo la preoccupazione per tali urgenze, facendo finta che non esistano o semplicemente spuntandole dall’ordine del giorno dei nostri valori o dichiarandole passate di moda, la comprensione delle forme e dei temi attraverso cui la relazione ecologica viene narrata e rappresentata resterebbe importante sia sul piano della storia della cultura, sia su quello dello studio critico e teorico della letteratura. Alcuni degli autori maggiori e più influenti degli ultimi decenni hanno eletto infatti le relazioni ecologiche a fulcro delle loro opere, spesso superando quel paradigma di antica origine e lunga fortuna che assegna all’intelletto umano la virtù e il diritto di dominare l’altro da sé incarnato dalla natura. Questa e altre prospettive originarie saranno illustrate nel capitolo 3, per mettere in luce quali costanti e varianti storico-ideologiche, quali figure e topoi abbiano inciso durevolmente e continuino a incidere nella percezione letteraria della natura. Come i temi, così anche le forme e i dispositivi retorici che prenderemo in considerazione hanno una lunga storia; sarà importante, perciò, osservare come queste costanti si attivino e si rinnovino in coincidenza con la maturazione di una sensibilità sociale, questa sì, decisamente contemporanea, cioè la percezione del rischio ecologico.
Una metafora politica
La separazione e l’asimmetria gerarchica tra umano e naturale hanno a lungo contribuito alla rimozione della natura dall’orizzonte dell’impegno e del pensiero politico-sociale. Ora, la coscienza – peraltro non univoca, come sappiamo – del rischio ambientale dovrebbe bastare a imporre il naturale all’attenzione della politica. Ma le interazioni tra coloro che occupano il medesimo ambiente possono valere come metafora della dimensione politica; ed è proprio questa metafora che spesso le narrazioni ecologiche sviluppano, più o meno esplicitamente. In tale dinamica, lo straniamento funziona come una forma di compromesso tra un paradigma olistico confusivo e un paradigma classico separativo. Il primo, attivo nel pensiero ecologico e talvolta nella stessa ecocritica letteraria, tende a equiparare umano e non umano senza tenere conto delle situazioni storiche e delle contingenze; il secondo legittima il “cartesiano” controllo dello Spirito sulla materia.
L’alternativa a questi due modelli diversamente insoddisfacenti è un paradigma distintivo, che trasforma la distanza tra l’io e il mondo esterno in una risorsa cognitiva e artistica. L’inversione di ruoli e posizioni relative tra soggetto e oggetti, tra individuo e contesto, tra umano e animale, mette in crisi la logica del dominio su cui si basa il paradigma separativo; d’altra parte, quest’inversione avviene sul piano della finzione letteraria e non mette in discussione il ruolo cognitivo e le prerogative morali dell’uomo, reso più consapevole e responsabile dal valore esemplare dell’invenzione. Da tali premesse muovono le interpretazioni proposte in questo libro; nelle opere letterarie prese in considerazione saranno poste in luce tanto le costanti tematiche e retoriche, quanto le diverse declinazioni del rapporto tra ecologia e letteratura.
L’essere umano è in grado di cambiare il proprio habitat materiale e spaziale più facilmente di altre specie; a differenza della maggior parte degli altri esseri viventi, può velocemente modificare il territorio per trasformarlo in dimora, senza che il clima e altri fattori ambientali gli precludano la possibilità di abitare nuovi luoghi: «le piante si mostrano, gli animali si nascondono; noi, gli umani», ha scritto il paesaggista francese Gilles Clément, «abbiamo bisogno di una casa. Un’enorme protesi senza la quale saremmo disabili, malati, o semplicemente villosi» (Ho costruito una casa da giardiniere, tr. it. 2014, p. 17). Ma una casa possiamo costruircela (o sceglierla) quasi dappertutto, in ogni momento; più lungo e doloroso è invece il cambiamento della dimora emotiva, all’origine del senso di colpa della modernità verso sé stessa: la colpa di aver traumaticamente modificato non solo l’ambiente in cui l’uomo si è evoluto, ma anche il complesso di relazioni costruito intorno alla natura e fissato dai testi sacri e dalla letteratura. Il maggior repertorio di topoi letterari trasmessi dall’antichità all’Europa moderna, Letteratura europea e Medio Evo latino di Curtius, che dedica uno spazio molto ampio alle rappresentazioni del paesaggio ideale, viene pubblicato non a caso nel 1948: dopo il collasso traumatico e irreversibile dell’“ambiente” culturale europeo. L’apocalisse senza riscatto, che in quegli stessi anni l’antropologo Ernesto de Martino individuava come condizione storica e psichica dell’uomo costretto a vivere sotto la minaccia atomica, incombe ancora, in forme diverse rispetto all’epoca della Guerra fredda ma non meno pericolose per il nostro ambiente biologico e sociale.
Pubblicato da Le Parole e le cose 19 Ottobre 2017.
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