Solo adesso, solo qui (cose da fare a Jazzi)
28 aprile 2018 8:24di Matteo Meschiari.
Sembra di essere in una mappa equinoziale alla von Humboldt. Quelle paesaggistiche, con una montagna settecentesca colorata a fasce, dove si leggono le variazioni vegetazionali al variare dell’altitudine. I frutteti, poi gli uliveti, poi il trapasso alle erbe e alle rocce, i dorsi calcarei e asciutti del Monte Bulgheria, Cilento meridionale. Domani cammineremo. Non so come, non so con chi. Ma cammineremo. E dal cammino verrà fuori qualcosa. Che poi è sempre la stessa cosa, da Ardipithecus ramidus a noi. Un andare oltre, uno stare qui. Ma questa volta non porto regole. Non c’è stato il tempo, forse non ne avevo voglia. Così non sarà come le altre volte, quando ho ingabbiato un gruppo di camminanti in una macchina cognitiva, o estetica, o politica. Domani cammineremo e basta. Così quello che volevo dire a loro lo dico a me stesso qui. Lo ripeto in camera, stanco del lungo viaggio in treno, prima di cena. E prima anche di aver capito com’è fatto realmente questo luogo.
Immagina. Di lasciare la città, di avere a disposizione un giorno per te. Vai nei paesaggi, quelli che ami, quelli che conosci, oppure vai altrove, in cerca di qualcosa di nuovo. Potrai fare ciò che vuoi, quello che ti riesce meglio, come camminare, arrampicare, nuotare, oppure startene al sole, all’ombra di una pianta. Invece decidi di cambiare i gesti, le posture, i modi di attraversare e pensare ciò che ti circonda. Vuoi fare meditazione di paesaggio, ma non ti va di dirlo ad alta voce, qualcuno potrebbe non capire. Vuoi vivere la terra dove sei arrivato in un modo diverso, forse adeguato al luogo in cui ti trovi, staccandoti per un po’ dal rumore che fanno gli altri, da quello che fai tu.
Forse puoi sederti, chiudere gli occhi, lasciarti trasportare in qualche mondo mistico, verso le mete descritte dai sapienti dell’anima. Nirvana. Alta Vacuità. La comunione dell’anima. Oppure puoi restare lì dove sei, ancora più lì, sempre più dentro a quell’intreccio complesso di tempi e volumi che è un paesaggio. Esci dal sentiero, cerchi piste che non esistono sulle mappe, ti guardi intorno. Qui c’era una faglia, pensi ai suoi abissi. Qui inizia il mare, le sue valli invisibili si allargano nella tua testa. Finalmente sei qui. Allora immagina. I movimenti infinitamente lenti di quella montagna laggiù. Prova a camminarli, come se fossero sentieri inumani. I muscoli delle gambe sentono le variazioni del terreno, quelle variazioni sono tracce di spazi, di tempi. Ecco. I tempi dei paesaggi dentro le tue gambe. Prova a cercarli. Sentili.
Come sarebbe, a questo punto, inventare degli “esercizi naturali”, come quelli spirituali che faceva Ignazio di Loyola? Ad esempio sui tempi dei paesaggi, sui loro movimenti. E con esercizi naturali voglio dire i modi per preparare il corpo e la mente a incontrare la terra come realtà vivente, riducendo l’arbitrio e il rumore dei gesti. Esercizi che si sdoppiano in esercizi immaginati ed esercizi camminati, per alternare pausa e movimento, mente e corpo, riflessione e azione. Immagina allora di proporlo a qualcuno. Potresti dirgli: sviluppa il tuo itinerario, ascolta il ritmo dei passi, del pensiero. Non hai tempo? Fanne solo uno alla volta, uno qualunque, lì dove ti trovi, su una scogliera, in un bosco, dentro una palude, lungo una frana di rocce, tra gli ulivi. Basta un semplice esercizio, uno qualunque, per entrare nel paesaggio, per capire ciò che sei.
Gli esercizi immaginati servono ad approfondire la percezione e a vedere con la mente ciò che sfugge ai sensi. Mari scomparsi, dinamiche geologiche, crescite vegetali hanno tempi e movimenti estranei ai nostri ritmi. Solo l’immaginazione può trasformare gli elementi visibili del paesaggio in visioni capaci di restituire l’energia e la varietà della terra. Gli esercizi camminati servono a individuare e a percorrere nei paesaggi degli itinerari nuovi, per sentire con il corpo l’energia e la varietà dei terreni. Nervature, linee di tensione, scorrimenti, isoterme e isoipse, ruscellamenti, canali del vento. Sono tutte proprietà comminabili del terreno. Poi, se vuoi, puoi pensare a percorsi inventati, che uniscono i due tipi di esercizi: si sovrappongono alle forme dei paesaggi per penetrare la loro complessità. Ma, ancora una volta, ne basta uno. Fanne solo uno.
Allora arrivi. È sera. Le luci stanno andando via. Un albergo, un bivacco, una tenda, la casa di famiglia. Hai mangiato, adesso sei a letto. Invece no. Ti alzi. Proprio come si prepara uno zaino, puoi preparare te stesso alla giornata di domani. I piedi prima di tutto. Devi renderli più lenti, più attenti. L’abitudine ti spinge a camminare da un punto A a un punto B per la via più breve, quella più veloce. Usi i passi come un mezzo, non come un fine, ti affretti. Invece puoi smantellare questa abitudine e ricostruire da zero il tuo modo di camminare. È semplice. Fa’ alcuni passi nella tua stanza, nel corridoio, ma falli più lentamente che puoi. Così lentamente che perdi quasi l’equilibrio. Così lento che ti senti un po’ stupido, e che la sponda del letto, o la finestra, o la porta in fondo al corridoio sono mete lontanissime. Punta e tallone. Punta-tallone. La punta è più sensibile. Più silenziosa. Come un cacciatore lungo una pista invisibile.
È una grammatica elementare del passo. Potrai riusarla sul terreno, domani, ma adesso torni a letto, chiudi gli occhi, sogni da sveglio i paesaggi, quelli che il buio ti nasconde, sono grandi animali addormentati. Ci cammini sopra, piano, provi a non svegliarli. E, come hai fatto con la piccola camminata, adesso cominci a immaginare qualcosa che ti riguarda da sempre, senza saperlo, un passo alla volta, partendo dall’inizio. Le pareti della casa, del bivacco, della tenda, si sciolgono. Resta solo la notte dei paesaggi. E in mezzo tu. Che sei arrivato qui 50.000 anni fa. Conoscevi le piste della selvaggina come le linee della tua mano. Entravi nelle grotte della terra e dipingevi animali come paesaggi. Era ieri 50.000 anni fa. Oggi sei così lontano da te stesso da non riconoscerti più. Eppure quel cacciatore eri tu, hai solo scordato chi sei.
Ma attento. Non si tratta di tornare al primitivo, bisogna ritrovare il primario, l’essenziale, quello che ancora sai fare nonostante le trasformazioni del mondo. Per seguire la selvaggina bisognava camminare. Per dipingere animali bisognava immaginare. Camminare e immaginare sono la tua essenza da sempre. Sono il lato selvatico che è in te. Non hai bisogno di miti o di libri per fare il primo passo. Passare al selvatico richiede una testa, due piedi e un terreno da camminare. Hai smesso di abitare le foreste, ma le foreste non hanno mai smesso di abitare te. Non si tratta di imitare le origini, ma di esplorare ciò che è permanente e fondamentale. Non il lampione, ma il lampo. Anche nello smarrimento, devi restare attaccato alla terra come a una preda. Devi cercare il corpo a corpo con il paesaggio.
Camminare per essere in movimento, non per andare da qualche parte. Il cacciatore va dove lo porta l’animale, non si preoccupa della meta. Camminare è l’incontro tra lo spazio e il corpo, secondo i movimenti del terreno. Immaginare per vedere il reale, non per fuggire dalla realtà. Il cacciatore immagina le mosse dell’animale a partire dalle sue tracce. Immaginare è l’incontro tra lo spazio e la mente, secondo i movimenti del terreno. Meditare il paesaggio. Farsi cacciatori di immagini, di flussi. Certi modi della mente e del corpo non si comprano, non si rubano, devi cercarli nelle foreste che sono dentro e fuori di te. Per questo hai bisogno di un terreno di caccia, di tracce e di una tecnica di sopravvivenza poetica. Il terreno sono i paesaggi, le tracce sono la loro storia, la tecnica è un repertorio di idee-guida verso un massimo di vita e di poesia.
La luce avanza rapidamente sulle terre immobili, ma è solo apparenza. Lo scopo della tua giornata è proprio questo: realizzare che il tempo di un paesaggio è vasto, articolato. Le terre sembrano immobili, ma non lo sono. I loro tempi interni sono come un torrente di lava, con correnti più dense e meno dense, con scorrimenti e rallentamenti, con increspature, stagnazioni, pieghe, con zone calde o fredde, con parti luminose o spente. Ogni ciottolo, ogni scoria, ogni massa ha il suo tempo interno, ogni parte scorre a suo modo ma s’intreccia a tutte le altre. Puoi guardare i tempi di un paesaggio da fuori, e allora li vedrai fluire come una cosa sola, oppure puoi frequentarli da dentro, e il passo e il pensiero li conosceranno uno per uno. Camminare e immaginare il paesaggio, infatti, significa prestare il ritmo del corpo e della mente a ciò che sembra senza tempo. Anche tu stai seduto, immobile, ma ti muovi, verso altri momenti del giorno, verso quel poco di vita che ti attende.
Fa’ così. Puoi articolare ogni esercizio in tre momenti, che corrispondono al terreno, alle tracce e alla tecnica. Il terreno è uno stato di concentrazione e abbandono. Per ottenerlo devi comporre il luogo, cioè evocare un’immagine, un’idea, uno stato d’animo in cui raccoglierti. Proprio come c’è un punto migliore per nascondersi e attendere la selvaggina, allo stesso modo c’è una posizione giusta per frequentare un paesaggio. Si tratta di costruire un nascondiglio mentale in cui predisporsi all’attesa, in un’attitudine confortevole ma vigile. Per ricevere il racconto, il tuo corpo si adeguerà al terreno e la tua mente sceglierà un punto del paesaggio su cui concentrarsi. Le tracce di un esercizio sono già nel paesaggio, si tratta di sentirle e riconoscerle. 50.000 anni fa esisteva una saggezza del territorio che univa conoscenze naturali, tecniche di caccia e miti per vivere in accordo con l’ecosistema. Oggi tutto è confuso, bisogna trovare un modo per interrogare nuovamente il paesaggio. Più che imparare a leggerlo, devi imparare a dirlo, a te stesso, e magari anche agli altri. Dire la storia di un paesaggio, raccontarlo, è il modo più efficace per conferire coscienza a ciò che non ce l’ha. Ogni esercizio racconta dunque una storia naturale, perché solo l’ascolto può sviluppare l’udito. Chi cerca la selvaggina deve adeguarsi a regole che nessuno impone, ma senza le quali non si ottiene nulla. Poi, ogni esercizio si conclude con una prescrizione. Ripetere, ricapitolare, variare, trasformare, dire, dividere, sentire, sviluppare una storia naturale, sono altrettanti modi per allenare l’immaginazione.
Ma no. In realtà non funziona. Non così. Troppo pensiero. Troppe parole. Allora mi alzo. Apro la finestra. L’aria del monte s’ingolfa nella stanza come qualcosa di molto reale, che cancella ciò che ho appena pensato, come una mano che leva la condensa da un vetro. Magari, con il tempo, conoscendo le persone e i luoghi, potrei azzardarmi a cercare una comunità complessa tra corpi e spazi. Magari potrei sondare la complessità di un singolo giorno con attrezzi mentali affilati. Ma non qui. Non domani. Domani cammineremo e basta. Forse faremo solo un esercizio. Uno solo. Piccolo. La camminata lenta. Ci sceglieremo un angolo di prato e, disposti lungo una linea, punta tallone, punta tallone, cercheremo di non arrivare mai. Adesso dormo. Anzi, vado a cena. Pare che il vino sia buono.
Camminare per raccontarlo #2
Oggi viene pubblicata la seconda parte del longform di Fabrizio Spinelli, la prima parte si può leggere qui: http://www.jazzi.it/2018/08/30/camminar
Leggi tuttoCamminare per raccontarlo #1
Oggi viene pubblicata la prima parte del longform di Fabrizio Spinelli, la seconda sarà online fra una settimana. di Fabrizio Spinelli. Nel
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