Il futuro anteriore delle aree interne in una nuova dimensione urbana

21 dicembre 2016 10:13 di jazzi

di Lidia Decandia

 

Ripensare oggi un futuro per le aree interne significa in primo luogo decostruire l’idea di perifericità e di marginalità a cui esse hanno rimandato per un lungo periodo. Se è vero infatti che questa marginalità è stata decretata da un modello di sviluppo che ha esaltato la velocità rispetto alla lentezza, la potenza rispetto alla fragilità, le luci accecanti della visibilità e dello spettacolo, rispetto ai valori d’ombra, i pieni rispetto ai vuoti, l’individuo rispetto alla relazione, la performance rispetto alla contemplazione, la tecnica rispetto ai valori e ai significati, l’efficienza rispetto alla cura e alla custodia della natura e dell’umano è certo che questo modello ha esaurito la sua spinta propulsiva e appare mostrare ogni giorno di più le sue crepe. E con esso le stesse idee di città e di territorio che lo hanno caratterizzato ed espresso.
Una civiltà sempre più stanca e depressa, enormemente indebolita e fragile, sembra non farcela più inseguire quella volontà di potenza che essa stessa si era data come fine ultimo dell’azione (Byung-Chul Han, 2010). Un insieme di indizi ci dice che uno sciame di nomadi, in esodo dalla città consolidata, si muove verso queste aree, e, per rispondere alle urgenze del presente, paradossalmente riscopre, reinventandole, forme d’uso del territorio che credevamo dimenticate e si riappropria, in modalità inedite, di ambienti dalle eccezionali qualità “densi di natura e di storia” Maciocco, 2011)
Si tratta certo di uno sciame di lucciole, di flebili bagliori che lampeggiano, che si accendono e si spengono in questi territori dell’ombra popolati dal “vuoto e dal silenzio”. Eppure questi piccoli, ma significativi, indizi ci indicano che questi territori, rimasti muti per alcuni decenni, stanno ricominciando a prendere la parola e ad acquisire significati nuovi all’interno di una più ampia dimensione territoriale. Ed è proprio all’interno di queste dimensioni, in cui si intrecciano tempi e scalarità differenti, che queste aree possono diventare materiali preziosi per costruire inedite forme di urbanità, in cui ci sia spazio anche per altre dimensioni dell’umano.
Come fece Picasso, che mise in luce l’arte africana, colpendola dialetticamente con l’incontro con quella storia troppo nuova, “quella punta estrema della storia artistica costituita dalla prospettiva del cubismo” (Didi-Huberman, 2007, p.170) anche noi potremmo scoprire, infatti, mettendo in collisione il desiderio di una città nuova con le dimensioni contenute in questi territori, che fra l’arcaico e il contemporaneo potrebbe esserci un appuntamento segreto. E che queste aree proprio, perché scartate, se ripensate all’interno di nuovi sistemi di relazione, potrebbero diventare le pietre angolari per rigenerare la nostra stessa idea di città. Una città non più pensata come un insediamento delimitato e circoscritto , ma come una partitura polifonica in cui, in un accostarsi di pieni e di vuoti, di addensamenti e di pause, di adagi e di veloci, di luoghi deserti e di nodi a forte intensità, anche il silenzio possa essere, finalmente, ascoltato. Il passato potrebbe allora unirsi “fulmineamente con l’adesso” e dare origine ad un lampo, ad una “costellazione”, ad una immagine “ricca di futuro” (Benjamin, 1977).

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Byung-Chul Han (2010), La società della stanchezza, NotteTempo, Roma.
Benjamin W. (1997), Sul concetto di Storia, Bonola G., Ranchetti M. (a cura di), Einaudi, Torino.
Decandia L., Lutzoni L. (2016), La strada che parla, Dispositivi per ripensare il futuro delle aree interne in una nuova dimensione urbana, Franco Angeli, Milano.
Didi-Huberman G. (2007), Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri Torino.
Maciocco G. (2011), “External territories and city project”, in Maciocco G., Sanna G., Serreli S. (e.d.s.), The urban potential of external territories, FrancoAngeli, Milano.

Pubblicato da Il giornale delle fondazioni, il 15 Novembre 2016

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