Thomas Bernhard. Camminare
16 agosto 2018 11:00di Luigi Grazioli.
Camminare è l’attività che più di ogni altra accomuna i personaggi di Thomas Bernhard. Camminare e parlare. Camminare e pensare. Camminare e pensare parlando. Dialogare mentre si cammina, ma più spesso monologare in presenza di un ascoltatore, che interloquisce il meno possibile e serve prevalentemente come spunto per variazioni, raffronti e analogie per ciò che viene detto. I monologanti sono perlopiù persone isolate, o che hanno fatto terra bruciata attorno a sé: uomini, sempre, che in genere bramano una solitudine che però li sgomenta e inorridisce, e che quindi hanno periodicamente bisogno, secondo modi e tempi che sono loro a decidere, di qualcuno che la interrompa, su cui riversare il bolo infinito delle loro rimuginazioni in un flusso che non conosce pause e non chiede il permesso, che essi espettorano per poterlo sentire a loro volta come da fuori, certificato dalla presenza estranea. Spetterà all’interlocutore/testimone trascrivere “quasi alla lettera” i monologhi, per la qual cosa non è indispensabile che sia un amico, basta che sia qualcuno di affine “nello spirito”, o “nella sensibilità” (La partita a carte, p. 20), ovvero un ospite, come l’italiano nell’omonimo racconto (ora in Al limite boschivo).
Di come le attività di camminare, parlare, riflettere si manifestano e combinano, nei vari libri viene esplorata e descritta la completa fenomenologia, ma in nessuno in modo così approfondito come Camminare, stranamente solo ora (e meno male!) tradotto da Giovanna Agabio per Adelphi, che forse non sarà il migliore tra i libri di Bernhard, come da lui sostenuto con Daniele Benati che racconta di averlo incontrato nell’83, ma è certamente tra i risultati più alti di tutta la sua produzione (impressione che peraltro si ha spesso quando si legge qualcosa di nuovo a distanza dall’ultimo libro). Il passo può essere lento mentre veloce è il pensiero, e viceversa; o può trasformarsi in breve corsa, con saltelli, soste e riprese accompagnando, favorendo o interrompendo i pensieri, a volte impedendoli, a seconda dei luoghi attraversati, con il loro influsso decisivo nella definizione e tonalità di ciò che viene pensato e/o detto, la loro incombente materialità, o la loro presenza discreta, invisibile, derivata dall’abitudine a percorrerli e ripercorrerli senza doversene più preoccupare, con il senso di sicurezza e di sostegno che ne deriva, tanto che a volte basta una variazione, di accompagnatore o di tragitto, a scatenare la crisi, o a innescare la miccia da cui parte l’alluvione delle parole. Alluvione distruttiva come quella che sommerge le terre del principe Saurau in Perturbamento (ma benefica come le piene del Nilo per il lettore).
È appunto da una crisi di questo genere che parte Camminare. Un uomo di nome Karrer impazzisce anche in seguito al suicidio del suo amico Hollensteiner, un chimico, e il suo sodale Oehler, che passeggiava con lui tutti i mercoledì, si vede costretto, per non impazzire a sua volta per il cambio di consuetudini, a chiedere di sostituirlo a un altro amico con cui di solito passeggia invece il lunedì, e durante la passeggiata gli racconta dell’impazzimento di Karrer e del suicidio di Hollensteiner con il condimento di tutte le tipiche riflessioni bernhardiane sulla vita, la società, la filosofia, la verità, la famiglia e via di questo passo.
Il tono delle sue riflessioni, come avviene sempre nei libri del grande scrittore austriaco, ha sempre un che di estremo, di duro, paradossale e risentito, che richiama una prassi oggi talmente diffusa da non essere quasi più percepita e da essere diventata una vera e propria industria della negazione, come peraltro scriveva Magris parlando di Bernhard già 40 anni fa. Se però negli ultimi decenni niente è diventato più facile che denigrare, screditare, insultare, disprezzare e demolire, allora niente è più difficile che farne stile e metodo in letteratura; e appunto per questo, che il potenziale di Bernhard sotto tale aspetto non abbia perso un grammo della sua ferocia dopo tanti anni e tante riletture, la dice lunga sul suo valore. Allo stesso modo l’insistenza e la ripetizione, che sono la morte di ogni affermazione e argomentazione, nel grande scrittore austriaco sono invece la linfa che nutre il discorso. Come mai? Perché nella sua opera non sono mai semplici ripetizioni e iterazioni. Ogni affermazione e ogni negazione vengono riprese, rivoltate, sviluppate, sfumate, specificate, ampliate, relativizzate, e quindi a loro volta sempre negate senza che vi sia mai un punto fermo, un approdo a qualcosa che possa essere considerato definitivo e veritiero. Se qualcosa viene estratto da questo flusso, è solo una citazione, come lo è tutto: “In fondo tutto ciò che viene detto è citato” (Camminare, p. 28, sott. di B.).
Niente è mai quella cosa lì, quel fatto o quel sentimento, ma sempre quella cosiddetta cosa, quel cosiddetto pensiero o sentimento (“il cosiddetto intelletto” e “il cosiddetto sottointelletto”, p. 18 e poi tutto: scienza, arte, tecnica, malattia, sapere, p. 92-3; ma già: “parlo soltanto tra virgolette, tutto quello che dico è detto soltanto tra virgolette”, affermava il principe Saurau in Perturbamento, p. 169): qualcosa che serve solo a chi effettua l’effrazione e il taglio, cioè qualcosa che viene usato per altri fini, e quindi mai può consistere in sé, mai essere vero, mai (cor)rispondere alla realtà e al mondo. Ogni discorso è un discorso riportato e anche il trascrittore e testimone, oltre a venir modificato nel suo essere da ciò che ha sentito e che riporta, non ha mai un pensiero suo, un punto di vista esterno e superiore, ma viene trascinato da ciò che dice, che è sempre ciò che qualcuno ha detto, e spesso da ciò che qualcuno ha detto che qualcuno ha detto e così via, ma tutto nella stessa frase, ogni cosa e affermazione incastrate le une nelle altre, che da sole non sussistono e se separate si sbriciolano, o acquistano una prosopopea, un’enfasi teatrale che già ne nega la validità e subito ne mostra l’essenza ridicola, assurda.
Spesso i monologhi (che potremmo chiamare monologhi in compagnia, o meglio: davanti a spettatore, quasi si fosse a teatro, come peraltro Bernhard stesso invita a leggere anche i suoi romanzi) si muovono per un po’ attorno a un nucleo che può essere un concetto, un’immagine, un evento o una persona, ma presto scartano in sempre nuove direzioni per poi recuperare qualche filo degli argomenti affrontati in precedenza in modo da tratteggiare una parvenza di coerenza, un disegno riconoscibile e della medesima tonalità di fondo, sia pure molto variata. Se però il lettore riesce per un istante a strapparsi dal ritmo trascinante del delirio (della prosa), cosa non facile e che si fa malvolentieri, come una piccola violenza autoinferta, si accorge che quello che appare come un ragionamento serrato spesso non è che un coacervo di osservazioni senza capo né coda, o meglio: senza logica, da cui ogni logica è (dall’autore) scientemente bandita, e anzi denunciata come menzognera, falsificatrice, con le varie componenti slegate le une dalle altre e tenute insieme solo dalla bava del ritmo e del tono emotivo dai quali poi ogni lettore (e lo stesso lettore a ogni rilettura) vede emergere, colpito come da una ruvidità imprevista o da una sassata, questa o quella espressione o riflessione, con cui costruisce il proprio libro e disegna ogni volta il suo personale Bernhard. Si impartisce da solo la propria lezione, di cui si compiace per un attimo prima di gettarla e passare, sempre nello stesso romanzo magari, ad altro, a plasmare un’altra storia, un altro autore e un altro lettore, con gli stessi nomi.
“Se ascolti attentamente” disse il principe “sentirai che, in ritmi pensati apposta per te, è sempre la tua storia che ti viene raccontata e che ti danno a intendere” (Perturbamento, p. 199). Nessun personaggio può quindi essere assunto a portavoce di Bernhard, anche (o soprattutto) quando porta lo stesso nome e cognome dell’autore e ne condivide alcuni momenti esistenziali decisivi (come l’asportazione di un tumore ai polmoni e la degenza in un padiglione ospedaliero in Il nipote di Wittgenstein), ma insieme tutti lo sono, sia pure di una visione parziale e limitata al contesto e al tenore narrativo: in tutti il meglio e il peggio di Bernhard sono disseminati senza nemmeno tentare di assicurargli una parvenza di coerenza, che del resto, a dispetto di ciò che ne pensano loro, nemmeno i personaggi hanno. Quasi tutti vi ambiscono, quasi tutti tentano di darsi, o tentano di dare all’interlocutore, un’immagine di sé in qualche modo solida e stabile, che li identifichi e definisca, ma senza mai riuscirci, e appunto in questo consiste e si consuma il loro reiterato, incessante fallimento essenziale.
A definirli è solo il nome, quando ce l’hanno (per esempio il narratore di Camminare è anonimo), il ruolo o titolo, la posizione sociale, o la professione (dottore, oste, principe, chimico, industriale, musicista…), ma loro, di fatto, non sono niente al di fuori dei loro discorsi, dei gesti o delle consuetudini e manie, e delle aspirazioni irrisolte e irrealizzabili che scaturiscono (e da cui scaturiscono) dalle loro ossessioni, riassumibili quasi sempre nella tensione verso una verità per definizione irraggiungibile, impossibile in quanto falsificata, intrisa di errore, già negli strumenti, come la lingua, con cui solo è sperabile di poterla attingere e comunicare. La menzogna (l’errore) è già all’origine. È già quella dell’origine. Lo smantellamento dell’edificio della menzogna, da quella filosofica a quella famigliare e sociale (a partire dalla sconsiderata e onerosa perversione di fare figli invece del più igienico e razionale suicidio, per arrivare alle istituzioni e allo Stato austriaco, oggetto questa volta di un feroce attacco per la sua ostilità al sapere e all’innovazione, che si tradurrà nel caso specifico nel suicidio di Hollensteiner), non può essere pertanto disgiunta da coloro stessi che la stanno mettendo in atto. Ne consegue che anche costoro non possono accettarsi per come sono, per quanto proprio in questo conflitto e nella necessità di rilanciare continuamente la ricerca, nell’intransigenza a non interromperla e nemmeno allentarla, riescano talvolta a trovare una provvisoria stabilità e identità. Se non che, subito, sono essi stessi a riconoscerne la natura fasulla e a vanificarle, riprendendo sempre di nuovo la ricerca non finché trovi l’impossibile compimento, ma finché non precipitano nella follia o riescono a compiere quel suicidio nella cui orbita i loro pensieri hanno sempre gravitato. In questa perenne instabilità, e nel perturbamento che ne deriva, sono coinvolti sia gli interlocutori/testimoni, sia soprattutto i lettori, che si trovano destabilizzati nelle loro certezze elementari, essi pure costretti a riconoscerne la natura fittizia e caricaturale e a trovarvi delle alternative che, ormai lo sanno, non reggeranno alla prima difficoltà o disanima.
Tutti cercano (cerchiamo) allora di divertirsi, nel senso pascaliano, ma non ci riescono se non per breve tempo e in modo incompleto, ciò che non fa che accentuare l’insoddisfazione e l’angoscia da cui dovevano distogliere. Le ossessioni potrebbero essere la giusta diversione, la più efficace, totalizzanti come sono, se non che proprio esse, con la loro tensione spasmodica e intransigente, sono quelle che con maggior forza e efficacia riconducono al punto da cui, per eliminarne gli effetti letali, erano dipartite. E tuttavia, “se non avessimo la capacità di distrarci / egregio signore / dovremmo ammettere / che non esistiamo assolutamente più / l’esistenza è sempre una distrazione dall’esistenza” (L’ignorante e il folle, p. 34). Sembra una contraddizione, ma non lo è, perché “tutte le frasi che vengono dette e che vengono pensate e in generale che esistono, sono al tempo stesso vere e al tempo stesso false, se si tratta di frasi vere” (Camminare, p. 21).
Con tutto questo, la distrazione resta un male, e il compito che definisce i personaggi di Bernhard è di rifiutarla e di dedicarsi al pensiero senza transigere, “fino allo sfinimento”. Se però si passa al vaglio, con “la necessaria freddezza mentale e acume” ciò che ascoltiamo, vediamo e facciamo, tutto appare orribile, “qualcosa di meschino e di vile e di superfluo” e “ogni giorno diventa un inferno… Perché tutto ciò che viene pensato è superfluo. La natura non ha bisogno del pensiero” (p. 13-14). Camminare, di questo doppio pensiero, nient’affatto dialettico, pensiero e contro-pensiero, indaga le varianti, che i suoi personaggi portano al limite, consapevoli dell’impossibilità di farlo senza esserne annientati e per questo della necessità di fermarsi un attimo prima di attingerlo, se non si vuole sprofondare nella follia come Karrer o suicidarsi come Hollensteiner.
È in questo alternarsi tra opposte esigenze, in questo ribaltare l’una nell’altra e essere attratti da entrambe senza poter scegliere che vivono molti personaggi di Bernhard, ed è questo che ne rende le figure imponenti e insieme ridicole, razionalissime e insieme folli, folli perché razionalissime, ridicole nella loro imponenza. E, per il lettore, perturbanti, finché le segue come loro seguono i loro pensieri o manie, e al contempo rassicuranti nel momento in cui coglie la loro ridicolaggine, che però non consola davvero, perché in essa si manifesta anche tutta la loro grandezza e tragicità. Non sono tragiche nonostante siano ridicole: lo sono nel loro stesso essere ridicole. La comicità dà sollievo, diverte, ma solo in modo momentaneo, perché poi, a guardarla bene, proprio in essa appare il tragico, che invece, isolatamente preso, nella sua pretesa di essere assoluto, sarebbe solo e davvero, nel peggior senso del termine, ridicolo.
Anche per questo, tra le pagine di Camminare a mio parere più riuscite, ci sono quelle, mirabolanti, esilaranti e tremende, in cui viene narrato lo scivolamento inarrestabile di Karrer nella pazzia in un negozio di abbigliamento, mentre si fa mostrare, come suo solito, tutti i pantaloni controluce per vedere dove la trama è meno fitta, i suoi “punti radi”, immancabili del resto (operazione che dovremmo fare anche noi per ogni libro che leggiamo, a partire da questo), e comincia a discettare della qualità dei tessuti con osservazioni che si fanno sempre più pesanti e ingiuriose (altro che “tessuto inglese di primissima qualità”, questa è “merce di scarto cecoslovacca”!), scandite dal bastone che viene picchiato sul banco, con un martellamento che è lo stesso delle frasi che vengono ribadite con sempre maggiore insistenza e del modo di narrare di Oehler che le descrive a Scherrer, lo psichiatra che egli disprezza e teme, e in seconda battuta all’anonimo narratore che a sua volta le ribadisce, scandite in modo identico, al lettore.
La deriva della follia è inarrestabile come quella delle parole e del comportamento di quasi tutti i personaggi di Bernhard, personaggi radicali, che in nessun caso si accontentano di mezze misure o di soluzioni non definitive, magari solo per segnare un provvisorio punto di riferimento da cui poi ripartire. No, solo la perfezione, per loro. E la perfezione tutta d’un colpo. Compiuta e completa, dall’a alla zeta. Quello che conta è soltanto il risultato, che deve essere senza sbavature, inscalfibile, assolutamente ineccepibile. Il percorso, come vuole la pia vulgata, vale solo per chi lo effettua, con le sue tappe necessarie, rigorosissime of course, ma in fondo di poco rilievo, disprezzabili, senza interesse per l’opera, di qualsiasi genere essa sia, né per i suoi destinatari (il genere umano, praticamente). Questo li condanna tutti al fallimento, di cui non restano tracce, se non talvolta in abbozzi e appunti che però vengono quasi sempre immediatamente distrutti dai famigliari; fallimento che è ancora peggiore tuttavia quando l’opera sembra realizzata (l’edificio a forma di cono di Correzione; e paradossalmente anche Glenn Gould in Il soccombente, il quale, mentre il pianista protagonista soccombe perché non è Glenn Gould, riesce e insieme fallisce proprio perché Glenn Gould lo è).
Con tutto ciò, è vietato fermarsi, rinunziare. Nemmeno per chiedersi cosa si sta facendo, a che punto si è, come procedere. “…non dobbiamo domandare a noi stessi come camminiamo, perché allora cammineremmo diversamente da come camminiamo in realtà [… e nemmeno] come pensiamo, perché allora non potremmo più giudicare come pensiamo, in quanto non sarebbe più il nostro pensare” (p. 107). Cioè non sarebbe più lo stesso pensare del pensiero sul cui “come” ci interroghiamo. Cioè ancora: non è possibile nessun meta- (metalinguaggio, metapensiero ecc.), e non lo è soprattutto laddove, e nella misura in cui, in ogni caso nel linguaggio e nel pensiero un aspetto meta- non solo è possibile ma addirittura è intrinseco, ineliminabile. Il discorso che nega la possibilità del metadiscorso è già un metadiscorso. E viceversa il discorso che si pone come metadiscorso non solo non può esserlo dello stesso discorso di cui si pone come meta-, ma è già esso stesso, in primo luogo, un discorso senza altre specificazioni. (Ma Bernhard in fondo non fa altro).
Lo stesso vale per i concetti e le pretese di “auto-osservazione” e di “autodescrizione”, e “autocompassione” e “autoaccusa” ecc. (p. 108). “Noi stessi non ci vediamo, non ci è mai stata data la possibilità di vedere noi stessi. Ma non possiamo neppure spiegare a un altro (a un altro oggetto) come èlui, perché possiamo spiegargli soltanto come noi lo vediamo, il che probabilmente corrisponde a quello che è, ma che noi non possiamo spiegare dicendo lui è così” (ibid.). E allora parliamo come se quello di cui parliamo fosse così, senza poterlo pensare e tanto meno comunicare a qualcun altro, anche se lo pensiamo insieme, ma proviamo lo stesso a pensarlo e a dirlo, e a pensarlo e a dirlo “fino in fondo” anche se è impossibile. Pensare è già pensare fino in fondo, altrimenti è nulla.
Riassumo: possiamo, e anzi dobbiamo, fare qualsiasi cosa, e farlo in modo assoluto, ma non siamo assolutamente mai in grado di farlo fino in fondo, e questo ci schianta; e d’altra parte, soltanto in questa impossibilità, nell’errore che la determina e che diventa così “l’unico fondamento reale” (p. 58), possiamo vivere, e vivere, schiantati, in una realtà che è anche fuori di noi. Che non possiamo definire, comunicare e nemmeno nominare, ma a cui, finché non cadiamo nella pazzia o non rinunciamo alla vita, continuiamo a pensare e a camminare intorno, avanti e indietro, tutti i giorni, lentamente o più velocemente, “fino allo sfinimento” (p. 51), nei luoghi da cui non riusciamo a staccarci o a cui finiamo sempre per ritornare.
“Tutto è insopportabile e orribile”, dice Oehler; “nulla dovrebbe essere più importante per noi di esistere costantemente, anche se solo nel, tuttavia al contempo contro il fatto di un’esistenza insopportabile e orribile” (p. 15-16), e “con tale consapevolezza, l’unica davvero rivoluzionaria, uccidersi” (17). Eppure, per chi rimane e questi discorsi li fa, il suicidio di chi è riuscito a compierlo, anziché essere qualcosa di positivo (secondo logica: se la logica importasse), è un trauma spesso insuperabile (non certo per i parenti, che semmai provano solo vergogna: non glielo perdonano, per loro è un’offesa che non si meritavano, una macchia non lavabile).
E allora si continua a spremere ogni pensiero, ogni azione o fatto, a rivoltarli in tutte le maniere e direzioni finché sembrano esauriti, come se solo allora si potesse trovare finalmente un punto fermo, un qualche equilibrio, un po’ di riposo. Ma esauriti non sono mai, e infatti accade sempre che all’interno di una procedura su qualcosa anche di molto diverso, per analogie imprevedibili o salti inspiegabili se non a posteriori, ritornano e devono essere ripresi da nuove angolature e portati, assieme, verso il loro apparente esaurimento, che è facile prevedere darà poi luogo, quasi sempre, a un nuovo esame, con procedure simili, quando un altro “movimento”, per usare un termine musicale, sembrerà prossimo a chiudersi o si troverà chiuso in una impasse. Tutto, i ragionamenti e i discorsi come i progetti e le opere di tutti i personaggi, deve tornare, ma tutto è destinato a restare inconcluso, perché anche affrontare la domanda più semplice (“Perché mi alzo la mattina?”, p. 40), cercare di capire una cosa, una persona, o solo una sua azione o decisione, o comporta “in ogni caso risalire sempre a tutto” (p. 39) e quindi la necessità di diramare l’indagine fino a coinvolgere ogni aspetto della realtà e del pensiero. A esaurirlo. Si vuole la verità, ma più la si vuole, perché non si può farne a meno, perché “pensare in modo assoluto” (p. 41) è un dovere (“devo considerare ogni cosa in rapporto con tutte le cose possibili”, diceva già il principe Saurau in Perturbamento, p. 68), più ci si rende conto di mancarla. “Quello che è, è ovvio” (p. 40), ma capire come è non si può. Dirlo, ancora meno. E allora non resta che tornare a parlare. Parlare, pensare, camminare.
Pubblicato da Doppiozero il 30 aprile 2018.
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